L’Italia e l’industria/ Una scossa o nessuno si fiderà più di noi

Mercoledì 6 Novembre 2019 di Romano Prodi
Ricordo che molti anni fa, prima ancora che palesasse il suo diretto interessamento per l’Ilva, fu chiesto al Signor Mittal quale fosse l’impianto siderurgico più efficiente di tutta l’Europa occidentale. La sua risposta fu molto chiara: Taranto.
Questo per la sua localizzazione e per essere stato progettato fin dall’inizio come un impianto unitario e di dimensioni appropriate: quindi con tutte le componenti rese ottimali dall’organicità del progetto. 
Dopo molti anni l’ArcelorMittal dava corpo al giudizio del suo maggiore azionista e, attraverso un’asta regolata dalle norme dell’Ue, acquistava l’impianto che avrebbe dovuto essere il punto di forza della strategia europea del più grande gruppo siderurgico mondiale.
Due giorni fa, dopo lunghe e durissime tensioni con la comunità locale e con il governo, la vicenda si è conclusa con la fuga dell’ArcelorMittal da Taranto.

Non è necessario sottolineare la dimensione dei danni economici conseguenti: la perdita di diecimila posti di lavoro diretti e forse il doppio di indiretti in una area quasi unicamente dipendente da questa fabbrica. A questo si aggiungono, come certificato dalla Svimez, i miliardi di perdite provocate dalla diminuzione del Pil nazionale e dal peggioramento della nostra bilancia commerciale.

Ogni nostro commento a questi ben noti eventi non può che partire dalla necessaria constatazione che la salute dei lavoratori e dei cittadini deve essere protetta applicando i migliori strumenti disponibili. Senza dare un giudizio sul passato e sulle conseguenti responsabilità, si deve tuttavia anche tenere conto degli sforzi che si sono recentemente compiuti. Come non avviene in alcun altro impianto europeo si sta infatti portando a termine la copertura del deposito delle materie prime che si estende per ben otto ettari. Con questa decisione si pone finalmente fine alla dispersione delle polveri che potevano certamente portare danni agli abitanti della città che, con il passare del tempo, si è sempre più avvicinata all’impianto.

Alle tensioni conseguenti ai problemi ambientali si sono aggiunti altri elementi di conflitto, come un luttuoso incidente mortale per il crollo di una gru nel porto. Tale evento ha portato ad un lungo sequestro delle banchine e alla necessità, tuttora perdurante, di servirsi del porto di Brindisi con un aumento dei costi che si sta protraendo per un periodo incomprensibilmente lungo. Senza contare l’ulteriore tensione che si è prodotta dopo l’obbligo di spegnere un altoforno in conseguenza di una controversa sentenza del tribunale di Taranto. Il tutto in una situazione di incertezza giuridica e di tensione con la società e con la politica locale, che ha portato ad una crescente sfiducia sulla possibilità di una futura sopravvivenza dell’Ilva.
In questo quadro il noto problema della responsabilità penale degli amministratori, pur non essendo irrisolvibile, è stato la causa ultima della decisione definitiva: la goccia che ha fatto traboccare il vaso.

Se non ci sono purtroppo differenze di opinione sulle drammatiche conseguenze economiche della chiusura di Taranto, sul piano politico invece è cominciata una lotta all’ultimo sangue sulle responsabilità prossime e remote dell’infelice gestione del caso Ilva. Una lotta che rende ancora più difficile un necessario e possibile compromesso positivo fra la protezione della salute e la vita dell’impianto. Chi pensa che la soluzione possa trovarsi in una lite giudiziaria senza fine dimostra di non capire niente dello svolgimento reale di queste controversie internazionali e niente delle conseguenze fatali che ne discendono sulla vita degli impianti industriali. Altrettanto fuori da ogni ragionevole contesto è l’idea che si possa mantenere in vita lo stabilimento chiudendo la cosiddetta area a caldo. Ne rimarrebbe solo una finzione con danni irreparabili per il nostro sistema produttivo. L’Ilva, ridotta in briciole, continuerebbe a perdere denaro e si dovrebbe ugualmente procedere alla chiusura degli impianti di Cornigliano e di Novi Ligure.

Non serve, peraltro, accusare l’ArcelorMittal, che già ha posto in cassa integrazione 1395 addetti, di abbandonare Taranto a causa della crisi che, con la sua inesorabile ciclicità, sta ora colpendo tutta la siderurgia mondiale. L’importanza di questo elemento è fuori di dubbio ma, proprio conoscendo le ferree regole delle imprese multinazionali, nessuno può pensare che un’azienda sopporti una perdita enormemente superiore a quella dei suoi altri impianti se non vi è la prospettiva che vi si ponga rimedio in un prevedibile periodo di tempo. La via del compromesso rimane quindi l’unica possibile, anche se ormai assai difficile da mettere in atto e, probabilmente, molto costosa.

Un compromesso che prepari però una nuova politica industriale per l’intero paese e che ponga fine al caos delle nostre norme e delle loro applicazioni nel campo politico, industriale, ambientale e giudiziario. 
Il caso Ilva ci mette di nuovo all’angolo fra tutti i paesi europei. Nessuno più si fida di noi: la nostra politica industriale, abbandonati i positivi disegni del 4.0, si riduce a cercare di salvare, senza però applicarvi le necessarie cure, un giorno l’Alitalia e, il giorno dopo, la Whirlpool o l’Ilva. Auguriamoci quindi che si faccia ogni sforzo per arrivare ad un accordo fra il governo e l’ArcelorMittal, ben sapendo che, se non cambiamo pelle, a nessuno verrà mai più in mente che l’Ilva di Taranto possa di nuovo essere considerato il migliore impianto siderurgico d’Europa. 
© RIPRODUZIONE RISERVATA