Bolzano-Barcellona/ Piccoli e grandi sovranisti che tentano la secessione

Martedì 15 Ottobre 2019 di ​Gianfranco Viesti
L’Europa di questi anni Dieci è stata attraversata – ed è ancora oggi segnata – da un’ondata di sovranismi: ma non solo a scala nazionale, anche regionale. Spicca la Brexit, ma non è la sola pulsione. Il quadro è articolato e complesso, ancora in divenire. Eppure notizie assai diverse come le deliberazioni del Consiglio provinciale di Bolzano e la sentenza del Tribunale Supremo spagnolo hanno un filo comune.

A Bolzano il Consiglio provinciale ha approvato (con 24 voti su 30) una legge che conserva il nome Sudtirol in tedesco, ma cancella Alto Adige in italiano. Un voto dal forte contenuto simbolico. Che dà la stura alla sua promotrice, la consigliera Tammerle, per dichiarare che «fino ad oggi non abbiamo potuto decidere se restare in Italia o dire a Roma arrivederci e grazie». Tira aria di referendum per l’indipendenza (o per l’annessione all’Austria) a Bolzano? Non sarebbe una novità assoluta. 

Già il Consiglio Regionale del Veneto il 19 giugno 2014 approvò con una netta maggioranza (28 su 43 presenti) l’indizione di un referendum sull’indipendenza della regione, che fu poi proibito dalla Corte Costituzionale. Si tenne invece una consultazione il 22 ottobre 2017 sull’”autonomia”, che ha dato il via alla campagna politica per l’autonomia regionale differenziata.

Anche in Catalogna fu deciso di tenere un referendum sull’indipendenza; anche lì fu proibito. Ma lo si volle tenere ugualmente, con un colpo di mano, il primo ottobre 2017. Votò meno della metà degli aventi diritto (e infatti i sondaggi confermano che almeno metà dei catalani sono contrari all’indipendenza). 
Ma soprattutto il voto scatenò prima tensioni e scontri con le forze dell’ordine; poi un intervento della magistratura, con l’incarcerazione dei leader indipendentisti. Fino alle condanne di ieri: certamente assai pesanti; ma prese con un procedimento perfettamente legale. Il commento del Primo Ministro spagnolo, il socialista Sanchez, è stato netto: in Spagna la legge si applica in modo uguale per tutti. 

Fin qui alcuni fatti. Che cosa li lega? Dietro di essi c’è il decennio di crisi europea, particolarmente intensa in Italia e Spagna: con le difficoltà economiche, la forte pressione fiscale, i tagli ai servizi, anche regionali e locali. La crisi ha rinfocolato in alcune comunità regionali la voglia di secessione, presente in forma latente da tempo: più in Catalogna meno in Veneto. In questo, l’economia conta.

Come documenta nel suo bel libro sulla Spagna la politologa Anna Bosco, fino a metà 2011 meno di un quarto dei Catalani erano per l’indipendenza; ad inizio 2013 erano diventati il 50%. Contano eventi specifici (come l’umiliante “salvataggio” delle finanze regionali), ma è la grande crisi a rinfocolare “l’egoismo dei ricchi”: il desiderio di una comunità con un reddito molto più alto della media spagnola di andare per proprio conto, tenere per sé tutte le proprie risorse fiscali, senza finanziare i servizi per gli altri. La strada, però, si mostra impervia. 
La secessione, in Spagna e in Italia, alla luce delle Costituzioni democratiche di entrambi i Paesi, è proibita. E poi diventa subito chiaro che un nuovo staterello indipendente avrebbe vita difficile: sarebbe fuori dall’Unione Europea (con le enormi difficoltà che la Brexit stessa sta mostrando) e potrebbe rientrarvi solo con il consenso di tutti (anche dello Stato di origine); userebbe forse una moneta, l’euro, governata da altri. La pulsione secessionista resta forte, ma il futuro è assai incerto.

Un’alternativa è una “secessione” di fatto , ma non di diritto, come quella che ha cercato e sfiorato il Veneto (affiancato dalla Lombardia). Acquisire, grazie alle norme costituzionali sull’”autonomia regionale differenziata” quanti più poteri possibile, gestirsi la propria scuola, incorporare le infrastrutture nel patrimonio regionale. Tenersi i propri soldi: il Consiglio Regionale del Veneto ha approvato il 15 novembre 2017 la richiesta di trattenere i 9/10 del gettito fiscale sul proprio territorio (con 40 voti a favore su 49), sottraendolo alla fiscalità generale. Lasciando allo stato nazionale brandelli di competenze, la politica estera e di difesa, e soprattutto il colossale debito pubblico. Da lì tutte le vicende che questo giornale in particolare ha documentato. Non si dimentichi che fra fine 2018 e inizio 2019 si è arrivati ad un pelo dall’Intesa con le regioni, da sottoporre poi solo ad un voto di approvazione in Parlamento: avviando un processo che sarebbe stato irreversibile e fuori controllo da parte dello stesso Parlamento. 

Vedremo se le vicende bolzanine resteranno una boutade o verrà fuori qualcosa di serio. Certo, in quel caso l’economia non aiuta i secessionisti. La Provincia di Bolzano gode già di condizioni straordinariamente favorevoli: non solo per le competenze, ma anche per le risorse. Per ogni cittadino di quella provincia la spesa pubblica complessiva è per quasi 5.000 euro più alta che per gli altri italiani (circa 16.500 contro 11.500). Il che fa 2,5 miliardi all’anno: un po’ la cifra che il Governo ha cercato disperatamente ieri per quadrare i conti. Per inciso, lo stesso vale per la Provincia di Trento, che ha 2,9 miliardi “di più” di spesa pubblica. Ogni anno. Da decenni. Fatti che hanno contribuito alle vicende venete: per l’oggettiva difficoltà di avere dei confinanti trattati molto meglio (nel cui territorio non a caso non pochi comuni veneti vogliono trasferirsi); per il desiderio di essere trattati come loro. 

L’impressione è che con la crisi si sia aperto un vaso di Pandora. Non si potrà richiuderlo come se niente fosse: il secessionismo dei ricchi è probabilmente qui per restare, in Italia come in Spagna: bisognerà capirlo sempre meglio, contrastarlo, governarlo.
 
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