No Tav assolto in Cassazione: «Reagì al lancio dei lacrimogeni»

Giovedì 10 Ottobre 2019 di Angela Pederiva
Gianluca Ferrari
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 Deve essere riscritta la verità giudiziaria sugli scontri fra No Tav e forze dell'ordine del 3 luglio 2011 in Val di Susa, durante la protesta a cui avevano partecipato pure decine di disobbedienti veneti. Dopo che il maxi-processo di primo grado si era concluso con 47 verdetti di colpevolezza per un totale di 145 anni di carcere, la Cassazione ha parzialmente annullato le condanne emesse dalla Corte d'Appello di Torino nei confronti dei primi quattro arrestati, fra i quali il 40enne Gianluca Ferrari, originario di Cittadella e all'epoca attivista del centro sociale Rivolta di Marghera. Grazie anche al ricorso dell'avvocato trevigiano Giuseppe Romano, infatti, gli ermellini hanno disposto un nuovo giudizio per accertare «se sia o meno configurabile la causa di giustificazione» in capo ai manifestanti, i quali hanno sostenuto di aver scagliato le pietre che ferirono i poliziotti come «reazione di rabbia rispetto al lancio abusivo di lacrimogeni» da parte degli stessi agenti.
LA RICOSTRUZIONE
Questa tesi era stata così smontata dai giudici di Appello nel 2017: «Anche se vi fosse stato un antecedente primo lancio di lacrimogeni da parte delle forze dell'ordine, esso sarebbe stato assai limitato e, in ogni caso, l'attacco dei manifestanti non poteva ritenersi una reazione al lancio dei primi lacrimogeni, ma un intenzionale assalto posto in essere da persone il cui intento era lo scontro». Secondo la ricostruzione della Corte piemontese, infatti, quel giorno a Chiomonte «un gruppo di alcune centinaia di persone attrezzate con caschi, maschere antigas, indumenti atti a celare la propria identità, bastoni e pietre si staccò dalla protesta legale per accostarsi al cantiere ed infrangere le reti di chiusura con il chiaro intento di scontrarsi con le forze dell'ordine che lo presidiavano», dopodiché l'esplosione di un razzo «segnò l'inizio della vera e propria battaglia», a cui seguì «il lancio di oggetti contundenti da parte della quasi totalità dei manifestanti all'indirizzo degli agenti che restarono immobili», tanto che «solo a seguito di tale situazione, gli agenti lanciarono dei lacrimogeni, come si desume dai filmati», un gesto «giustificato dal minaccioso avanzare di centinaia di persone fuori dai percorsi autorizzati con evidente intenzione di attaccare».
IL RICORSO
Per quei fatti Ferrari era stato infine condannato a 2 anni e 4 mesi per violenza, resistenza e lesioni aggravate a pubblico ufficiale, reati a vario titolo contestati anche ai co-imputati Filippo Marco Baldini, Michele Alessio Del Sordo e Roberto Nadalino. L'attivista veneto aveva però fatto ricorso in Cassazione, lamentando il proprio mancato riconoscimento tramite le foto e i filmati e invocando la causa di esclusione della responsabilità penale, considerati «le modalità dell'azione, l'uso improprio dei lacrimogeni, il loro impiego massiccio, l'avere gli agenti scagliato pentole e pietre sui dimostranti». A sostegno di ciò, l'avvocato Romano aveva citato pure «la testimonianza del professor Caccia (Beppe, ex assessore comunale a Venezia, ndr.), il quale ha dichiarato che appena i manifestanti si sono avvicinati alle reti di protezione del cantiere, da parte dello schieramento impressionante delle forze dell'ordine è partito un lancio fitto di lacrimogeni».
LE MOTIVAZIONI
Secondo la Cassazione, è fuori discussione il coinvolgimento di Ferrari, riconosciuto da una vittima «senza alcun dubbio», anche descrivendone «nel dettaglio l'abbigliamento», poi «rinvenuto all'interno della sua abitazione». Tuttavia le motivazioni del rinvio a Torino dicono che il collegio d'Appello «non ha spiegato, sulla base dell'intero materiale probatorio raccolto, perché non si possa ragionevolmente escludere che i fatti si siano, in tutto o in parte, verificati in modo diverso da come indicato nella sentenza». In particolare la Suprema Corte ha chiesto che un'altra sezione chiarisca le ragioni della presunta inattendibilità delle deposizioni «che hanno ricostruito i fatti di causa in maniera difforme», anche sulla base dei video che «proverebbero che le forze dell'ordine lanciarono lacrimogeni e sassi al di fuori delle direttive ricevute» e che «i manifestanti non avevano un piano d'azione previamente concordato», al punto che «il lancio di lacrimogeni avrebbe, in alcune zone, preceduto l'inizio del lancio degli oggetti da parte dei manifestanti». Il principio ricordato al riguardo dalla Cassazione è che «la reazione può dirsi giustificata a fronte di un atto oggettivamente illegittimo, in quanto compiuto, anche solo per modalità di attuazione, in maniera disfunzionale rispetto al fine per cui il potere è conferito, cioè con sviamento dell'esercizio dell'autorità rispetto allo scopo perseguito».
 
Ultimo aggiornamento: 11:23 © RIPRODUZIONE RISERVATA
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