La non punibilità/Il passo avanti e le ombre da diradare

Giovedì 26 Settembre 2019 di Cesare Mirabelli
La Corte costituzionale ha portato a termine, con la sentenza ieri annunciata e della quale si attende la motivazione, l’esame della questione di legittimità costituzionale dell’articolo 580 del codice penale, che punisce non solamente chi istiga al suicidio o ne rafforza il proposito, ma anche chi «ne agevola in qualsiasi modo l’esecuzione». 

L’esito era in buona misura prevedibile. La Corte aveva già esaminato a fondo la questione sollevata dalla Corte d’assise di Milano ed aveva pronunciato, ad ottobre dello scorso anno, una ordinanza che indicava i valori e i principi costituzionali in gioco, giungendo ad affermare che la incriminazione dell’aiuto al suicidio, nella sua assolutezza, in determinate situazioni comportava un vulnus alla Costituzione.
 
Tuttavia non ne aveva tratto immediatamente le conclusioni con una dichiarazione di incostituzionalità della norma penale.

Questo per consentire al Parlamento, in una prospettiva di leale cooperazione, di svolgere il suo ruolo e di bilanciare ragionevolmente i diversi principi in gioco, nell’esercizio della discrezionalità politica, come pure di costruire un sistema di garanzie, prevedendo modalità e procedure, oggetto di diverse possibili soluzioni, che evitassero di aprire a percorsi di morte indiscriminati e incontrollabili. Rispondere a queste esigenze, del resto, sarebbe stato andare oltre i compiti propri della Corte, di verifica della legittimità costituzionale delle leggi esistenti e non introdurne di nuove.

È evidente che a seguito di una valutazione di incostituzionalità già annunciata, ma non ancora formalmente dichiarata, e di lavori parlamentari che su questo tema non hanno avuto alcun esito, e neppure un sostanziale progresso, la Corte non avrebbe atteso ulteriormente per trarre le possibili conclusioni dalle ampie motivazioni offerte con la precedente ordinanza. I punti essenziali allora enunciati portavano ad affermare per un verso che il diritto alla vita è «primo dei diritti inviolabili dell’uomo» e la «incriminazione dell’aiuto al suicidio non può essere ritenuta incompatibile con la Costituzione» essendo «funzionale alla protezione di interessi meritevoli di tutela da parte dell’ordinamento; per altro verso che la protezione non possa essere così assoluta da valere in ipotesi circoscritte, richiamate dal comunicato diffuso dall’ufficio stampa della Corte nella tarda serata di ieri, all’esito della camera di consiglio. 

Non deve dunque sorprendere una sentenza di illegittimità parziale, che mantiene in vita la previsione come reato dell’aiuto al suicidio, ma dichiara «non punibile» la condotta di chi agevola l’esecuzione del proposito suicida, quando ricorrono le condizioni già indicate nella precedente ordinanza: vale a dire nelle «ipotesi in cui il soggetto agevolato si identifichi in una persona (a) affetta da una patologia irreversibile e (b) fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, che trova assolutamente intollerabili, la quale sia (c) tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, ma resti (d) capace di prendere decisioni libere e consapevoli».

La novità è costituita, piuttosto, da come la Corte ha superato la difficoltà di provvedere alla introduzione delle garanzie che riteneva necessarie e che, secondo quanto aveva indicato nell’ordinanza, avrebbe dovuto stabilire il Parlamento. Senza entrare in contraddizione con se stessa la Corte ha ribadito che è indispensabile un intervento del legislatore. Nel frattempo ha subordinato la non punibilità al rispetto delle modalità di accertamento della volontà previste dalla normativa sul consenso informato, sulle cure palliative e sulla sedazione a profonda continua, ed alla verifica delle condizioni richieste e delle modalità di esecuzione da parte di una struttura pubblica del Servizio sanitario nazionale. 

Questo percorso, se da un lato rappresenta una garanzia, dall’altro rischia di trasformare il suicidio in un diritto a prestazione, che neppure la Corte sembra ammettere, avendo nella sua precedente ordinanza affermato che è “dovere dello Stato di tutelare la vita di ogni individuo: non quello – diametralmente opposto – di riconoscere all’individuo la possibilità di ottenere dallo Stato o da terzi un aiuto a morire."

Non mancano, dunque, passaggi nei quali la motivazione della sentenza consentirà di comprendere meglio aspetti non marginali della decisione della Corte. 
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