«Sono gay, in Africa rischio la galera». Migrante espulso ottiene dai giudici lo status di rifugiato politico

Domenica 18 Agosto 2019 di Angela Pederiva
(Foto di repertorio)
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TRIESTE -  Il suo racconto era apparso confuso sia alla Commissione territoriale di Gorizia, sia al Tribunale di Trieste, fra contraddizioni nel percorso del viaggio effettuato e discrepanze nella tipologia e nella durata del lavoro svolto. Ma per la Corte d'Appello del capoluogo giuliano, quelle incongruenze valgono assai meno del rischio corso dal 23enne proveniente dal Gambia e dichiaratamente gay: «Una sua persecuzione nel paese d'origine, dove l'omosessualità è ancora considerata reato, punito con 14 anni di carcere». Così, ribaltando i due giudizi precedenti, la sentenza pubblicata nei giorni scorsi ha salvato il migrante dall'espulsione, concedendogli lo status di rifugiato.
 


Nella sua richiesta di protezione internazionale, il giovane aveva spiegato di aver frequentato la scuola solo per un mese, di aver cominciato a fare il saldatore all'età di 10 anni e di aver avuto tre rapporti sessuali proprio con un collega, che era però stato arrestato in quanto omosessuale e che aveva fatto il suo nome alla polizia. Temendo di fare la sua stessa fine, il ragazzo era fuggito prima in Senegal e poi in Libia, dov'era stato assunto da un libico conosciuto in Gambia ed era entrato in confidenza con suo figlio. Quella frequentazione era risultata tuttavia sgradita al datore di lavoro, il quale temeva che l'amicizia potesse nascondere dell'altro, così aveva cacciato il gambiano senza stipendiarlo, ma soltanto pagandogli la traversata su un barcone gestito da un trafficante. Il migrante era così arrivato in Italia nel maggio del 2016 e aveva iniziato un percorso di consapevolezza sulla propria omosessualità, ma né la Commissione di Gorizia né il Tribunale di Trieste gli avevano creduto, a causa di alcune difformità nella narrazione degli accadimenti, nonché del fatto che gli amplessi fossero avvenuti «senza che vi fosse tra i due una relazione sentimentale».
LE MOTIVAZIONI
La prima sezione civile della Corte giuliana ha invece reputato che le imprecisioni fossero «marginali», in quanto «l'elemento essenziale» era un altro: «Ai fini del riconoscimento della protezione internazionale per ragioni legate all'orientamento sessuale non è necessario indagare quale sia l'effettivo orientamento del soggetto, essendo sufficiente il modo in cui lo stesso viene percepito nel paese d'origine e la sua idoneità a divenire fonte di persecuzione». Accogliendo l'appello presentato dagli avvocati Roberta De Simone e Claudio Faggion contro il ministero dell'Interno, i giudici di secondo grado hanno stabilito che «il racconto è compatibile con le informazioni sulla condizione delle persone Lgbt in Gambia tratte dal rapporto Easo (European asylum support office, l'Ufficio europeo di sostegno per l'asilo, ndr.) del dicembre 2017», ed in particolare «con l'inasprimento delle disposizioni sull'omosessualità intervenuto nel 2014 ad opera dell'ex presidente Jammeh, con la riferita attività della Nia (National intelligence agency, il Servizio segreto gambiano, ndr.) che di porta in porta ricercava omosessuali, e con i conseguenti arresti, maltrattamenti e torture degli arrestati», anche perché non risulta che «le leggi contro l'omosessualità siano state modificate dal nuovo presidente Adama Barrow, dimostratosi molto cauto quanto alla sua posizione relativamente alla normativa gambiana sull'omosessualità». Essendo stato «ritenuto sussistente un fondato timore di persecuzione» del 23enne, in ragione «della sua appartenenza al gruppo sociale dei soggetti Lgbt», nei suoi confronti non sono scattate le semplici protezioni umanitaria o sussidiaria, ma è stato disposto lo status di vero e proprio rifugiato. E il Viminale è stato condannato a pagare oltre metà delle spese di lite.
Angela Pederiva
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Ultimo aggiornamento: 15:22 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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