Nino, 84 anni, il calzolaio invalido: 60 anni di lavoro, pensione da fame

Domenica 28 Gennaio 2018 di Paola Treppo
Lo storico laboratorio di calzolaio di Antonio a Tricesimo, in Friuli 
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TRICESIMO (Udine) - Antonio ha 84 anni e va orgoglioso del suo cognome, Scilipoti. Anche se non è un cognome friulano. Perché ama la terra d’origine dei suoi genitori, la Sicilia, Enna, il comune di Leonforte. Ama il Friuli, la regione dove è nato, in una piccola casa a due piani di Borgo Sant’Antonio, nel centro storico di Tricesimo, dove vive ancora con sua moglie. E ama il suo lavoro. Fa il calzolaio da quando era solo un ragazzino e andava a scuola. Ma lui, dice, si "perdeva" più con le figurine, che con i libri e la lavagna.

Dal 1922 
Così il padre, Salvatore, che emigra dalla grande isola nel 1922 per arrivare nel Nord dell’Italia, capisce che studiare non gli garba più di tanto. Così se lo tiene accanto, nel suo laboratorio, che ha solo 15 anni. «Lo vede quell’angolo lì? Vicino alla sedia dove ha appoggiato la borsa? Ecco, io stavo in piedi che ero poco più che un bambino, a imparare a fare le scarpe». Dire che Antonio e suo padre erano, e sono, calzolai non è giusto. Questa bottega, cui passi davanti quasi senza neanche notarla, vicino alla statale Pontebbana, col suo traffico infernale, è stata per decenni uno vero e proprio calzaturificio artigianale.

Le scarpe su misura
Qui Salvatore creava le scarpe su misura, per tutti, con tanto di garzoni e dipendenti. E suo figlio, oggi, un uomo simpatico, cui non manca l’ironia e un modo di vedere il mondo a colori anche se non ce la fa più a camminare, continua a realizzarle, se qualcuno gliele chiede, se ha un difetto al piede. Se vuole una calzatura che vada “a pennello", “fatta bene”.

Una pensione da fame dopo 60 anni di lavoro
«Ma ormai la gente, si figuri, sa cosa fa? Compra le scarpe su internet, per risparmiare. Poi si lamenta. Perché gli fanno male le gambe, e spende di più. Che mondo». Antonio è invalido al cento per cento. Per muoversi usa con fatica le stampelle, nascoste dietro la porta. È in pensione, dopo oltre 60 anni di lavoro. «Sì, una fortuna, certo, la pensione. Ma la gente non sa che io prendevo 723 euro al mese fino a poco tempo fa. Adesso, bontà dello Stato, mi hanno aumentato la "paga" di qualche euro: arrivo a 735 euro. Comunque dipende dal mese, se ha 30 o 31 giorni. E lì varia un pochino, il "gettone"; bisogna essere fortunati. Chiudere un occhio, far finta di nulla e prendere quello che arriva».

«Mi salva il buonumore» 
Poi si fa una bella risata, Antonio, dentro nel suo maglione di lana blu, nella stanza che è tutto il suo regno, tra macchine che hanno più di un secolo di vita, che arrivano un po’ da tutto il mondo e che funzionano ancora: «Il buonumore mi salva, sennò sono morto». Nel 1975 rileva l’attività del padre che era arrivato in Friuli chiamato dallo zio, anche lui calzolaio. «Mio padre era un’artista. Dall’Africa arrivavano pelli meravigliose, di ogni tipo: pitone, camaleonte, lucertola, coccodrillo. Qui, tutto in famiglia, si facevano i modelli. Mia sorella Daria, che oggi ha 90 anni, faceva l’orlatrice. E cosa non ne usciva da questa bottega: scarpe uniche. Borse, cinture, scarponi con una triplice cucitura. E poi decolté da sposa: pizzi finissimi, da lasciarci gli occhi».

Le scarpe cinesi
Lo riconobbe anche il calzolaio del Papa: «Passò in paese, non so perché, e vide, in vetrina, un piccolo modellino di calzatura da donna. Disse, che sì, quella era arte vera. Adesso? Io non ho mai avuto crisi di lavoro, come altri artigiani, ma molte cose sono cambiate. Adesso si fa più riparazione. Che non è neanche facile. La gente ti porta scarpe che crede siano fatte in Italia, fatte bene, con buoni materiali. Ma io, alla fresa, anche se sono di marca, pagate tanto, le riconosco subito: non riesco neanche a respirare, per i prodotti chimici tossici che emanano. Roba che ti intossichi, non igienica. È scritto che sono di lusso ma a me non me la raccontano. Arrivano dalla Cina, dal Vietnam, da chissà dove. E c’è chi le paga fior di soldi».

«​Mio figlio? Un artigiano dei denti»
Odilla, la moglie di Antonio, 81 anni, una vita da sarta, gli dà una mano: «Mi fa compagnia. Nostro figlio? È un artigiano pure lui, ma fa denti. È un odontotecnico; non vuole portare avanti la tradizione delle scarpe. Ma anche lui è un creativo, un artista artigiano a suo modo. Gli vogliamo bene».

Aveva proposto corsi gratis
Anni fa, quando questo mestiere era ancora “molto” necessario, Antonio aveva proposto a Confartigianato di fare dei corsi, perché i giovani imparassero. «Chiedevo solo i materiali: pelli, macchine. Avrei insegnato gratis, perché questa arte non si perdesse. Ma mi hanno detto di no. La politica. Non so cosa. Adesso, in anni di crisi di tutto, ci sono persone che vengono a chiedermi di poter imparare. Molte sono donne. Ma io non posso accettare. E mi dispiace. Lavoro a 84 anni per sopravvivere. Non posso tenere un garzone, o qualcuno solo a guardare. Mi denunciano subito. Così tutto si perderà. Piano piano tutto morirà».
 

 


Il bancone di inizi 1900
Ma resta il bancone di inizio 1900 della calzoleria “A. Scilipoti”, originale, tutto in legno, dipinto con lo smalto bianco panna. In negozio ci sono le vecchie macchine da cucire, le sedie in formica, uno specchio inclinato per guardarsi i piedi, con le scarpe indosso. «Tengo le vecchie macchine per ricordo - dice sorridente Odilla, una donna simpatica, coi capelli bianchi, abituata da decenni a stare in mezzo alla gente -, ma ho tolto gli aghi, perché non si facciano male i bambini, quando vengono con le mamme a far riparare le scarpe. Sa, è vero che il lavoro non manca ma è anche vero che non è come una volta. Forse, per fortuna, perché non abbiamo più le energie di una tempo».
 
Tra colle, vernici e corde
«Mi scusi per il disordine» si premura Antonio, seduto al suo banco. E fruga, fruga, sul quel tavolino di legno che è vecchio più di lui, tra colle, vernici, corde e misteriosi attrezzi del mestiere. «In famiglia siamo stati sempre in tanti. Chi aveva 12, chi 10 figli. Tutti longevi. Tutti creativi. Poi ognuno ha preso la sua strada. Mio padre, quando avviò da solo l’attività a Tricesimo, ottenne “in dote”, perché era più giovane, solo due attrezzi. Tutto il resto, quello che c’è qui dentro, se l’è comprato da solo, con il suo lavoro, e poi l’ho fatto io. Per questo lo stimo, lo ringrazio per quello che ha fatto e che mi ha insegnato prima di andarsene, di morire. Nella mia vita non ho mai guardato le lancette dell’orologio. Non ho mai messo in conto le “ore”. Impossibile».

«Mi hanno messo i bastoni tra le ruote»
Cosa resta? «L’amore e il rispetto per quello che si sente come passione, nel cuore, e che diventa per caso anche un lavoro. Restano i ricordi e, alla mia età, il poter dire quello che penso veramente: volevo fare qualcosa per i giovani e per chi verrà dopo di me, ma mi hanno messo i bastoni tra le ruote.
A pagare non sarò io, purtroppo. E che la gente impari a non comprare scarpe che paga un occhio della testa e che costano due lire».

Ultimo aggiornamento: 15:28 © RIPRODUZIONE RISERVATA
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