Adriano De Grandis
OGGETTI DI SCHERMO di
Adriano De Grandis

Il doppio J'accuse di Polanski: verità e bugie
Light of my life: autoriale, un po' consumato

Giovedì 21 Novembre 2019


Non è facile approcciarsi a “L’ufficiale e la spia”, titolo, che come spesso accade, non ha la forza dell’originale (“J’accuse”), dal famoso editoriale di Emile Zola, apparso nel 1898, a seguito del caso Dreyfus, la cui scandalosa condanna all’esilio stava scuotendo la Francia. Non è facile, perché da Venezia in poi, da quella dichiarazione della presidente di giuria, Lucrecia Martel, fino a tutte le problematiche che da anni si rincorrono sui casi di stupro, per i quali il regista polacco viene continuamente accusato, il film è diventato teatro di scontro (anche ideologico) tra chi difende il regista, separandolo dall’uomo; e chi invita a tenere conto di tutto, anche di come il film, nel suo paradigma di innocente perseguitato, rifletta la situazione odierna del regista.
Che poi Polanski sia un grandissimo regista, nessuno può metterlo seriamente in dubbio. Basterebbe d’altronde la magnifica panoramica iniziale, così geometricamente solenne, a far capire che film è “L’ufficiale e la spia”. La spogliazione militare del capitano Alfred Dreyfus, avvenuta per alto tradimento con relativo confinamento nell’Isola del Diavolo, non codifica tanto il regolamentare gesto di espulsione di una spia per aver informato i tedeschi, quanto l’atto deliberatamente artefatto di una condanna perseguita dall’Alto Comando dell’Esercito francese verso un ufficiale, che tra le tante colpe inventate, aveva anche quella di essere ebreo. In quella breve, umiliante cerimonia emerge il disprezzo di un intero Paese, che Polanski, a più riprese, disegna fortemente razzista (bersaglio sono anche altre categorie), non solo nelle stanze del Potere, ma anche ai livelli più bassi della popolazione, come nella scena eloquente della salita di Dreyfus al tribunale, in mezzo a una folla quasi indemoniata. E rivedendo in Dreyfus, se stesso oggi.
Polanski si attiene rigorosamente ai fatti (come scrive nella didascalia iniziale) e firma il suo lavoro più classico, rigoroso, perfino austero, rinunciando a qualsiasi scintilla autoriale, ma imprimendo alla storia (siamo a fine ‘800) uno sguardo spietato e feroce. Un sistema di menzogne che Polanski smaschera, in modo implacabile, con una gestione esemplare dello spazio e un’espressività magnetica dei volti, dove affiora una inevitabile componente personale, che si nota anche nell’ultima, più perfida che amara sequenza, quando a pagare, nella rivalutazione dei ruoli, è ancora una volta l’ebreo, in quel mondo che stava cambiando, portando la Francia e l’Europa alla guerra e al nazismo. Perfetto il cast, da Jean Dujardin a Louis Garrel, fino al calligrafo Mathieu Amalric e a Emmanuelle Signer, amante di Picquart. Gran Premio a Venezia, con il sospetto che senza le dichiarazioni iniziali della Martel, sarebbe stato Leone d’oro. Voto: 7,5.

LIGHT OF MY LIFE: UN MONDO SENZA DONNE - In un futuro post-apocalittico, un padre e una figlia vivono nel bosco, con una tenda da campeggio come rifugio. Da tempo il mondo ha visto quasi la scomparsa delle donne, colpite da una malattia che le ha portate velocemente alla morte. Per questo oggi essere una donna indifesa è un pericolo assoluto: logico quindi che il padre, all’occorrenza, finga di avere un figlio maschio. Ma la curiosità di alcuni umani rintracciati nel loro cammino riesce a scalfire il segreto. E la lotta per la sopravvivenza si fa sempre più dura.
Casey Affleck (attore, sceneggiatore e qui al suo secondo film da regista) gira una specie di ambizioso western minimalista, cupo e silenzioso, in una “no women’s land”, dove la genitorialità diventa lotta, in un rapporto struggente e affettuoso, che trova nel sogno fiabesco (la “rilettura” della storia biblica di Noè) la sponda per credere ancora in un domani. “Light of my fire”, specchio inevitabile di “The road”, discute di etica e morale, di fede e coraggio, ma ha il limite di accontentarsi di essere solo descrittivamente emotivo, sia nello sviluppo narrativo che sui temi fondanti. Bravissima la giovane Anna Pniowsky, la regia di Affleck tende all’autoriale un po’ consumato, ma è un film sincero.  Voto: 6.

 
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