Maniero, lacrime di un uomo fragile: «Non arrestatemi, per mia figlia»

Domenica 20 Ottobre 2019 di Maurizio Dianese
Felice Maniero e Marta Bisello
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Assassino, sì; rapinatore, anche; spacciatore, di sicuro. Cattivo, feroce, determinato, spietato: ma picchiatore di donne? Felice Maniero che alza le mani su Marta Bisello e che piange quando lo ammanettano? Siamo sicuri che sia lo stesso Felice Maniero che dal 1980 al 1995 ha messo in piedi e diretto con pugno di ferro e a pistolettate una banda di quasi 500 “soldati” che ogni giorno e ogni notte metteva a segno decine di colpi, mentre inondava di cocaina ed eroina le discoteche e le case, le fabbriche e i bar di tutto il Nordest?
Il boss della mafia del Brenta, prima di quest’ultima volta, aveva pianto solo quando era morta, suicida, sua figlia Elena. Basta. E, per quanto riguarda le donne, nessuno ha mai visto l’assassino Maniero, il rapinatore Maniero, lo spacciatore Maniero, il boss Maniero, mettere una mano addosso ad una donna. Non faceva parte della sua mentalità di bandito.
L’ULTIMA FIGLIA
E poi Felice Maniero non può aver bastonato Marta Bisello, la sorella di Rossella, morta nel 1989, mamma di Alessandro. Perché Marta Bisello è stata dai primi anni ‘90 la sua donna, la compagna che gli ha dato l’ultima figlia, la diciannovenne per la quale Maniero stravede. Da sempre. «Per lei mi butterei nel fuoco. Mi comanda a bacchetta e mi fa fare tutto quello che vuole»,- raccontava quando un giornale e poi una trasmissione televisiva, contravvenendo a tutte le regole, anche di buonsenso, avevano diffuso la nuova identità e il luogo in cui abitava il boss con Marta Bisello e la figlia. «Certo che vorrei andarmene da Brescia, ma mia figlia ha le amiche qui, non vuole spostarsi».
E così era rimasto nella provincia lombarda, aveva solo cambiato casa. Ecco, ha pianto perché il carcere lo separerà dalla figlia e questo è possibile, ma significa che la mutazione genetica del bandito Felice Maniero, che era iniziata alla fine del 1994, è giunta a compimento e da oggi in poi bisognerà raccontare la sua quarta vita, quella di un ex boss che è finito nel gorgo della depressione.
Nella prima vita Felice Maniero, nato a Campolongo Maggiore il 2 settembre 1954, aveva costruito la più feroce e la più ricca, la più numerosa e la più potente banda del Nord Italia, talmente potente da trattare alla pari con mafia, camorra e ‘ndrangheta. Nella seconda vita Felice Maniero, a partire dal 18 ottobre 1994, era diventato collaboratore di giustizia ed aveva contribuito in modo determinante a smantellare la sua banda di assassini e spacciatori. Nella sua terza vita aveva fatto l’imprenditore e aveva riciclato il suo immenso patrimonio, stimato in 100 miliardi di lire, utilizzando anche il cognato, Riccardo Di Cicco, che una buona parte di quel tesoro – forse 30 miliardi di lire – l’ha usata e sperperata. Ora, nella sua quarta vita lo scopriamo casalingo e pensionato, ma soprattutto depresso, incapace di adattarsi alla routine del travet.
Negli ultimi 10 anni è entrato e uscito dalle cliniche specializzate e, nel frattempo, ha dovuto iniziare ad affrontare il problema dei problemi, quello della carenza di soldi. Non che non ne abbia più di milioni da parte, ma quel che basta ad un comune mortale per due vite, non è sufficiente per il boss del Brenta che negli anni d’oro i soldi li contava a miliardi. Solo sua madre, Lucia Carrain, ha maneggiato più di trenta miliardi lire e poi altri milioni di euro sono finiti in imprese fallimentari dei figli, prima di Elena che a Pescara aveva aperto un negozio di vetro di Murano e un negozio di abbigliamento e poi di Alessandro che aveva tentato la fortuna in Spagna aprendo un paio di pizzerie. La depressione era arrivata prepotente con l’immensa gioia per la nascita dell’ultima figlia, che ha avuto da Marta Bisello: «Sì, abbiamo affrontato con gli psicologi il problema di cosa dire a mia figlia. Che adesso sa tutto di me».
Marta Bisello, che si era messa con lui quando Felicetto aveva quarant’anni e lei ventidue, ma soprattutto quando lui era ancora dietro le sbarre e lei invece era a casa dei suoi, lo aveva assistito in questo lungo cammino. E lo aveva raccontato, recentemente: «Sono arrivata al punto di sospettare che si fosse rimesso sulla vecchia strada - aveva detto Marta -. Spesso è assente oppure perde la pazienza per un niente. È nervoso, gli saltano i nervi per qualche stupidaggine. È tanto depresso, non lo vedo bene».
LE CURE
Lui stesso confessava, con quel misto di sfacciataggine e di leggerezza che gli era tipico, che ogni tanto aveva bisogno di «ricaricare le pile». Per lunghi periodi non si faceva sentire, ma poi quando riaccendeva il telefono era per dire che stava bene, che era stato in clinica e che lo avevano rimesso a nuovo.
Evidentemente non è così se è scoppiato in lacrime quando lo hanno arrestato. Lui che si faceva beffe delle manette non solo perché era scappato due volte da due carceri di massima sicurezza, quello di Fossombrone e quello di Padova, ma anche perché in galera era servito e riverito dai suoi, al punto da avere il cuoco personale, quel Sergio Baron specializzato in riso in bianco, che Maniero considerava un toccasana. Perché è vero che il boss già nella sua prima vita qualche tic ce l’aveva. Ad esempio era convinto, nonostante tutti gli accertamenti clinici negativi, di essere malato di cancro allo stomaco e si cibava solo di riso in bianco e mele crude. Non si drogava, non fumava, non beveva, ultimamente era sobrio come un frate trappista a tavola e andare a pranzo con lui significava votarsi alla mestizia del quasi digiuno. E si capiva già anni fa che queste manie, questa idiosincrasia stavano diventando malattia vera. Era evidente che nonostante tutto non era riuscito ad adattarsi alla nuova vita.
GLI INCUBI
Del resto, spiega qualcuno che gli è sempre stato vicino, per lui diventare normale è stato come sarebbe per chiunque diventare assassini o rapinatori. Non dormiremmo la notte così come lui deve aver passato notti insonni a sognare i grandi colpi, i tantissimi soldi, le donne a volontà dei vecchi tempi.
Ecco, le donne. Magari adesso qualcuno si ricorderà che negli anni ‘80 la sua prima condanna e la sua prima carcerazione si deve allo stupro di due turiste svedesi. Ma quella storia è sempre stata negata da lui e dagli altri protagonisti anche se Maniero è stato condannato. «Perchè le donne non si toccano nemmeno con un fiore», diceva serio serio, e se dunque ha messo le mani addosso a Marta Bisello è perché non è più Felice Maniero. Questo non attenua la gravità del fatto e non lo giustifica, ma appena un po’ forse lo spiega.
Maurizio Dianese

Ultimo aggiornamento: 14:45 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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