Infrastrutture e Sud/ Investimenti, banco di prova del governo

Giovedì 10 Ottobre 2019 di Gianfranco Viesti
Una delle eredità più velenose della grande crisi è il calo strutturale degli investimenti pubblici in Italia; conseguentemente, il mancato aumento del capitale pubblico, il suo deterioramento. Il loro rilancio sarà il tema più importante con il quale la nuova maggioranza di governo dovrà misurarsi, se riuscirà a sopravvivere; ma anche se vorrà sopravvivere: dato che senza di esso appare molto difficile una ripresa dell’economia.
Non è un caso che proprio agli investimenti pubblici sia stato dedicato un capitolo della Relazione della Banca d’Italia di quest’anno; come pure una parte dell’intervento – assai importante, da riprendere - del suo Direttore Generale Fabio Panetta il 21 settembre scorso. Negli ultimi dieci anni gli investimenti fissi della pubblica amministrazione sono stati inferiori di oltre 10 miliardi ogni anno rispetto al livello pre-crisi. Si è quindi creato un “buco” enorme, pari ad almeno 100 miliardi. Oggi valgono 35 miliardi anno: in Francia sono rimasti costanti intorno a 80 miliardi l’anno. 

Perché questo è importante? In primo luogo perché significa che si sono ridotte le risorse dedicate alla manutenzione, all’ammodernamento e all’ampliamento delle nostre infrastrutture: non solo pochi nuovi binari, ma anche un peggioramento – in molti casi – delle condizioni di utilizzo di quelli che ci sono. Questo riduce la qualità della vita dei cittadini: nelle scuole, negli ospedali. E peggiora le condizioni competitive delle imprese: come si fa ad esportare se non ci sono collegamenti fisici e immateriali? 

In secondo luogo perché da un aumento degli investimenti potrebbe venire una forte spinta alla crescita; molto maggiore di quella che si può ottenere con qualche sgravio alle famiglie. Stime della Banca d’Italia documentano un sensibile effetto “moltiplicativo”: 100 euro di investimenti possono produrre un aumento del reddito nazionale fino a 180 euro nel medio periodo; ma anche maggiore, qualora stimolassero anche una maggiore accumulazione di capitale privato. Questo significa che gli investimenti pubblici possono creare in Italia una sorta di magia: pur aumentando la spesa il rapporto fra debito pubblico e Pil, grazie alla maggior crescita, si ridurrebbe.

Certo, occorre che gli investimenti siano adeguatamente selezionati: dando priorità a quelli meglio progettati, ai completamenti di opere incompiute, o ad azioni di raccordo e valorizzazione di infrastrutture esistenti. Non solo grandi opere: soprattutto opere intelligenti. E occorre contemporaneamente che siano completati con celerità, altrimenti la spesa produce pochi effetti. 

Qui la situazione italiana è tragica: dati dell’Agenzia della Coesione mostrano che da noi servono in media 11 anni per completare un’opera di costo superiore ai 5 milioni di euro. Ma le analisi mostrano che si può migliorare; e questo dovrebbe essere un tema di fondamentale interesse per il Governo. Il 40% della durata è infatti dovuto non agli appalti o ai lavori ma ad attività accessorie di tipo amministrativo (iter amministrativi, passaggi burocratici). Qui si può fare moltissimo. E le analisi ci dicono anche come. Studiando i Comuni del Mezzogiorno, sempre la Banca d’Italia mostra che vi è una grandissima differenza nei tempi di realizzazione: le Amministrazioni che hanno personale più qualificato (laureato) ed esperto sono assai più rapide delle altre. Assumere, con concorsi trasparenti, giovani ingegneri nei Comuni è uno degli interventi più utili che si possono fare.

Il Sud è l’ultimo, decisivo, elemento del quadro. Un rilancio degli investimenti pubblici in particolare nel Mezzogiorno è fondamentale: perché lì la recessione è stata più grave; perché lì le condizioni infrastrutturali sono nettamente peggiori e disincentivano lo sviluppo delle imprese; perché gli investimenti pubblici in rapporto alla popolazione sono dall’inizio del secolo inferiori al Sud rispetto al Centro-Nord. Non a caso l’unica grande, positiva, operazione infrastrutturale compiuta nel nostro Paese, l’alta velocità, ha una componente meridionale del tutto minoritaria. La spesa in conto capitale al Sud, all’inizio del secolo, era intorno ai 24 miliardi all’anno; negli anni più recenti è, a valori costanti, intorno ai 14 miliardi. Un tracollo.

Ma investire al Sud non fa bene solo al Sud. Fabio Panetta ha ricordato che un incremento degli investimenti pubblici al Sud pari all’1% del suo Pil per dieci anni (4 miliardi all’anno) potrebbe avere un moltiplicatore pari a 2 nel medio-lungo periodo, dando una spinta decisiva a redditi e occupazione. Ma creerebbe anche un effetto espansivo su tutto il Paese. Il Centro-Nord ne beneficerebbe, grazie alla maggiore domanda e all’integrazione commerciale con il Mezzogiorno. Un’altra magia: investendo al Sud il Pil del Centro-Nord potrebbe aumentare fino allo 0,3%. 

Un Paese a crescita zero dopo lunghi anni di una crisi devastante, come l’Italia in cui viviamo, è ad alto rischio. Per cominciare a rilanciarlo, gli investimenti pubblici sono uno strumento decisivo. Dovrebbero avere priorità assoluta. Nelle scelte di politica economica interna: è davvero così difficile provare ad ottenere consenso dagli italiani spiegando che si sta spendendo per la sicurezza dei loro figli nelle scuole? E dovrebbe avere priorità nelle interlocuzioni con Commissione e Consiglio europei. Ai nostri partner dovrebbe ormai essere del tutto chiaro che è impossibile ridurre il debito italiano (come è invece è necessario) senza crescita economica. Ma per questo non serve qualche decimale di flessibilità per spesa corrente, ma un accordo lungimirante per un piano di investimenti fuori dal Patto di Stabilità: nelle infrastrutture “verdi”, nelle regioni più deboli, su più anni.
 
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