Incidente in offshore, parla il superstite: «Diga invisibile e lo schianto»

Domenica 22 Settembre 2019 di Michele Fullin
Incidente in offshore, parla il superstite Mario Invernizzi: «Diga invisibile e lo schianto»
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VENEZIA - «Mi hanno chiamato il miracolato, e prendiamoci questa etichetta. È vero, con quello che ho passato. È stata una tragedia immane, per me Fabio Buzzi era un papà e quando perdi il papà, sia pure un papà sportivo, è tanta roba. Soprattutto avendo visto tutto. Io c'ero, non ho mai perso conoscenza neppure un attimo. Una ferita che non si potrà mai rimarginare, a differenza di quelle sul mio corpo. Ci vorrà ancora un po' ma alla fine i dolori passeranno».
 



Mario Invernizzi, lei è l'unico superstite dell'incidente di martedì sera: il vostro motoscafo da corsa è finito contro la lunata della bocca di porto di Lido. Se la sente di rivivere quei momenti? «Sono stato a deporre per un'ora e mezza davanti agli inquirenti, ma è tutto coperto dal segreto istruttorio: credo che da raccontare ci sia poco. Mi sento però di dare un consiglio alle autorità di Venezia: su quella lunata mettete catarifrangenti o luci solari, per far  capire che c'è un ostacolo. Con un investimento piccolo si possono salvare vite umane. Quella sera la diga non si vedeva, neanche nel visore notturno. E quelle luci, rossa e verde, ti fanno pensare e a una imboccatura di porto, ci vai dritto dentro. È un consiglio che mi sento di dare».
Quindi quella sera è andata così...
«Ma sì, cosa si spenderà a mettere catarifrangenti ogni dieci metri e qualche lucetta per far vedere che c'è un ostacolo di un chilometro? A farla grande, con 10mila euro, diventa un incremento della sicurezza. La situazione così com'è è un attentato potenziale a chiunque. Non è necessario correre, una diga del genere in certe condizioni non si vede. E se uno vede per vari motivi solo le luci, pensa che quella sia l'imboccatura del porto».
Quindi Buzzi, che era alla guida pensava di entrare in porto.
«Guardi, eravamo sempre collegati tra noi con le cuffie. Quando mi sono alzato dal sedile per verificare che le luci che vedevamo fossero quelle della giuria, non ho sentito nessuno urlare in cuffia, come succede quando ci si rende conto di essere in pericolo. Hanno capito che andavano contro la diga solo quando ci siamo andati per davvero. Buzzi, ma anche tutti noi, ha certamente scambiato lo sfondo grigio del visore notturno con la lunata, dello stesso colore. È bassa e il radar non la vedeva. E non diciamo fesserie sull'elettronica. Avevamo così tanta strumentazione sofisticata a bordo che sembrava la plancia di una nave da guerra. Quando ci siamo arrivati addosso io ero girato, per una combinazione che ha fatto sì che non fosse ancora il mio momento. Il tempo di girarmi e mi son trovato sbalzato in acqua: un colpo della Madonna. Forse era tutto scritto». 
Che vuol dire?
«Se n'è andato l'Enzo Ferrari della motonautica. È morto mentre faceva ciò che gli piaceva, facendo la stessa fine di Ayrton Senna che si schiantò contro un muro. Per me era tutto già scritto, forse anche il fatto che non era ancora il mio momento. A me personalmente cambierà la vita, so che mi sarà difficile anche sorridere. Pensi che ho fatto il diavolo a quattro per essere lì con loro quella sera. E per fortuna sono andato. Se fosse capitata la stessa cosa e io non ci fossi stato, non mi sarei mai perdonato il fatto che forse avrei potuto fare qualcosa. In questo caso proprio non si poteva. È andata così, eravamo felici, dopo l'arrivo a Venezia volevamo andare a cena ai Do Forni con i nostri amici di sempre. Non ci siamo mai arrivati».
Chi era Fabio Buzzi?
«Un uomo che o lo prendevi così o lo prendevi così. Una persona comunque positiva. Dopo 25 anni e mille avventure insieme ci davamo ancora del Lei: lui mi chiamava Invernizzo e io lo chiamavo Ingegnero. Ma per me era davvero come un papà ed era geniale in tutte le cose che faceva».
Quando avete deciso di tentare il record?
«Se ne parlava da luglio, poi la decisione di partire è stata presa domenica. Nel 2011 il record lo feci io con la mia barca. Nel 2016, poi, eravamo insieme e abbassammo di cinque minuti il tempo fatto segnare da me. Però quella era una barca militare, non mi interessava molto».
E quella dell'altra sera?
«Una barca incredibile, potente, straordinaria. A livello sportivo quel record rimarrà e non lo potrà battere nessuno. Garantisco io. Ho fatto tutto l'Adriatico, da Roccella Jonica a Ravenna a 76 nodi (140 km/h). Tutto. Gli altri due membri dell'equipaggio, Luca Nicolini ed Erik Hoorn, purtroppo entrambi morti nel colpo, mi avevano stretto la mano per aver tenuto quell'andatura per tutto quel tempo. Dopo, ha voluto prendere il timone lui, voleva fare l'arrivo a Venezia».
Era una barca speciale, c'è stata l'omologazione del tempo?
«Il record è stato omologato, ci mancherebbe. La barca, era la prima volta che la guidavo con quella motorizzazione, 2.700 cavalli. Sono due Fpt di nuova generazione, dei prototipi, ma Buzzi li ha marinizzati e messo delle turbine particolari. Un missile. Il lato sportivo è stato epico. Quei motori hanno un futuro, anche se battezzati purtroppo con una tragedia. Diciotto ore e 50 a manetta. Anche la barca, una bestia da alte velocità. Mentre stavo per finire di guidare gli dissi Ingegnero che barca, dovremmo fare la Montecarlo-Londra. E lui: Non si distragga, che le ultime miglia sono sempre quelle fatali. E aveva ragione. Purtroppo».
Michele Fullin

Ultimo aggiornamento: 10:07 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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