Gianni salvato dall'autotrapianto: «Cibo, proverbi e grappa. Sì, sono ancora un Belumat»

Lunedì 16 Settembre 2019 di Edoardo Pittalis
Gianni salvato dall'autotrapianto: «Cibo, proverbi e grappa. Sì, sono ancora un Belumat»
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«Ci vuole una tua resistenza personale alla morte. O trovi l'energia per ripartire con un altro ciclo o ti domandi: vale la pena di fare tanta fatica? La poesia, la canzone, la scrittura sono quelle che mi hanno sorretto. Dopo la malattia ho capito che non puoi correre, nemmeno i 10 metri puoi fare. Ci ho messo più di quattro anni per rialzarmi, quasi. Oggi ho bisogno di chi mi aiuta, ma comincio di nuovo ad andare in giro, ho ripreso i concerti».
Gianni Secco, bellunese, 73 anni, è uno dei più famosi interpreti della musica e della poesia popolare veneta. Conduttore televisivo di programmi popolari, con i Belumat ha portato canzoni e versi in giro nel mondo, dovunque ci sia stata emigrazione veneta. Dopo la malattia è tornato sul palcoscenico.
Come ha scoperto di essere malato?
«Ero in Sardegna, a Sorgono, per una mostra di maschere. Non riuscivo più a muovermi. La fortuna ha voluto che tra gli organizzatori ci fossero due medici oncologi che mi hanno accompagnato al loro ospedale e hanno subito capito che avevo una forma di tumore al sangue, il linfoma di Hodgkin, i globuli bianchi invece di morire a tempo debito sopravvivono e si ammalano sovrapponendosi. A Treviso trovo un oncologo che conosceva tutte le mie canzoni, mi dice che rimaneva una sola cosa da tentare, rischiosa per chi ha più di 65 anni: l'autotrapianto di midollo».
In che maniera ha reagito?
«Mi sono messo a studiare la bestia, ho scritto anche un libro Bao e babao che non ho mai pubblicato. Sono stato operato nel giugno 2015, comincio a camminare adesso. Ho anche patito un paio di sofferenze cerebrali, sono quasi morto, perché quando i globuli bianchi non ti proteggono più tutte le malattie ti assalgono. I medici sono stati prontissimi a tirarmi in qua. Una volta hanno chiamato mia moglie Patrizia e le nostre due figlie perché sembrava che fosse la fine, quando sono arrivate mi hanno trovato seduto sul letto che parlavo con le infermiere».
Come era la Belluno della sua infanzia?
«Quella Belluno l'ho vissuta in via Garibaldi perché il mio santolo stava là. C'era una vita che non finiva mai, era pieno di botteghe artigiane, si riparava tutto in questa via che una volta si chiamava Borgo Tiera perché si facevano le scodelle di terracotta che poi sulle zattere venivano portate a Venezia. Sono cresciuto in un ambiente stimolante, in periferia, allevato in una non parrocchia perché i frati cappuccini di Mussoi non avevano parrocchia, ma erano riusciti a formare un gruppo affiatatissimo di adulti che facevano di tutto e entravano in città solo per le grandi feste patronali».
Già da bambino le piaceva il mondo dello spettacolo?
«Mio padre Ottorino faceva il tecnico alla Chinaglia, la più importante fabbrica metalmeccanica di Belluno, dirigeva due reparti di donne. Aveva la passione del teatro amatoriale, così sono nato e cresciuto in un ambiente vicino al teatro. Noi del Mussoi eravamo tutto l'anno impegnati nel fare un presepio che occupava l'intera navata della chiesa dei frati che è un ossario con migliaia di loculi, se c'era freddo ci riparavamo nella cripta sotterranea. L'unico modo di scaldarsi era quello di sorseggiare un po' della Stella cometa che era un bottiglione di grappa che la notte si svuotava e il giorno dopo tornava pieno. Dai frati ogni venerdì d'inverno andavamo a mangiare il Baccalà alla cappuccina in bianco con dentro pinoli, uva passa, bello cremoso, con la polenta. Padre Beltrame, che era pure capitano degli Alpini e c'era una leggenda che fosse uno dei più giovani reduci di Russia, si era fatto frate dopo la guerra. Questo presepio era forse il più grande del Veneto, mio padre e i colleghi metalmeccanici lo avevano fatto diventare un presepe semovente, arrivavano con le corriere a vederl».
C'erano anche rugby e chitarra?
«Con la parrocchia avevamo una squadra di rugby giovanile che faceva i campionati, ho preso anche alcune medaglie. Correvo veloce, non avevo struttura da pilone. Era rugby a 13, crescendo siamo arrivati alle serie superiori, abbiamo inaugurato lo stadio di Belluno contro il Cus Torino. In questo periodo ho incominciato anche a cantare e a suonare la chitarra con I Pionieri perché si prendeva un soldo con i complessini beat. Il nostro forte erano le canzoni degli Shadows che allora erano famosi: qualcuno ricorda Apache? In città c'erano Le ombre che rifacevano i Beatles».
È stato anche emigrato in Germania
«Ero perito elettromeccanico e la Chinaglia che poi mi ha mandato in Germania a ripassare strumenti di misura. Nei locali c'erano ancora i cartelli Vietato agli italiani. Bastava andare la domenica in stazione a Monaco di Baviera per incontrare gli italiani che arrivavano: erano poco apprezzati, li consideravano appena sopra i turchi. Sono rientrato perché dopo il disastro del Vajont c'erano possibilità di ricostruzione con forti contributi statali e sono stato assunto da una filiale della Fiat che faceva compressori per frigoriferi. Ho fatto un lungo aggiornamento a Torino, la fabbrica era dietro lo stadio di via Filadelfia e la domenica andavamo a vedere i granata di Gigi Meroni, la sua morte è stata una disgrazia enorme. A Torino ho conosciuto anche Gipo Farassino con cui ho cantato, mi sono fatto una bella cultura tra le osterie».
Le prime poesie le hanno procurato problemi in fabbrica?
«Al rientro, ho cominciato a frequentare l'ambiente della poesia dialettale e un vecchio amico mi ha accompagnato a un concorso a tema libero. Prima siamo passati da un parente che produceva vino e aveva una cantina scavata nella roccia che cambiava colore a seconda dell'umidità, ci siamo presi una balla storica. Però ho vinto il primo e il terzo premio e ho pensato che fosse facile. Era il periodo del boom dei premi in dialetto nel Veneto, praticamente li ho vinti tutti, specie il più famoso che era il premio Abano e in giuria c'erano Biagio Marin, Ugo Fasolo e Diego Valeri. Fasolo era bellunese, presentò le mie poesie sul lavoro in fabbrica, quando le ho pubblicate il direttore mi chiama e mi dice: Non si sputa nel piatto dove si mangia. Risposi che il mio era un contributo ai rapporti in azienda, uno studio poetico sul fatto che esisteva il metalmezzadro, gente che tratta le macchine come fa con le vacche: le governa, le cura, fanno parte della famiglia. Non aveva nemmeno letto una poesia, ma all'azienda che non era più Fiat - non piaceva la gente troppo libera. L'azienda aveva triplicato la produzione in meno di dieci anni e i macchinari da me progettati erano stati adottati anche in Cina dove mi avevano mandato spesso per insegnare l'uso».
Quando sono arrivati i Belumat?
«Negli Anni '70 con Giorgio Fornasier, che ha una bella voce tenorile, nel 1971 abbiamo fatto nascere i Belumat, i Bellunesi, dopo che insieme avevamo improvvisato al Palasport per tamponare l'assenza di un gruppo folk. Il successo è stato inatteso, così abbiamo messo in scena le poesie, vestiti col frac. Abbiamo avuto fortuna, abbiamo inciso subito Aria de Belun. Avevo anche iniziato a fare una trasmissione televisiva a Teledolomiti, un'ora, intitolata Cincin: era la prima televisione libera del Veneto, ricette tradizionali, proverbi, cori di montagna. Con i Belumat abbiamo girato il mondo, soprattutto nelle Americhe, trovando le famiglie degli emigrati. L'esperienza si è chiusa negli Anni '90, avevamo trovato la fortuna del momento particolare, ci aveva dato fama e soddisfazione. Dopo la pensione mi sono dato a quello che mi piaceva di più, l'enogastronomia, ma quando si stava andando verso la nouvelle cousine ho mollato: i piatti come pittura cancellano la storia».
 
Ultimo aggiornamento: 17 Settembre, 08:48 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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