Adriano De Grandis
OGGETTI DI SCHERMO di
Adriano De Grandis

Toy story 4, il poker non è servito
L'ultima ora, quei bravi studenti...

Mercoledì 3 Luglio 2019

Non era facile ripetere all’infinito, all’interno della saga di “Toy Story”, lo straordinario percorso iniziato ormai un quarto di secolo fa e continuato fino al capitolo 3, magnifica ipotetica chiusura di un mondo, tra sorrisi e lacrime, dove i giocattoli si sono animati di vita propria, in un congegno accattivante, probabilmente il migliore di tutta la famiglia Pixar. Non era facile e forse, diciamo la verità, non era nemmeno necessario. Ecco quindi il quarto capitolo, che si spera essere veramente l’ultimo, mostrare come anche la più prolifica creatività possa deteriorarsi e raccontare un’ulteriore avventura, senza stupire come un tempo, accontentandosi di mettere in piedi momenti di divertimento e bonaria tensione, dove la solitudine dei giocattoli, ma anche il loro ludico stare insieme, è risaputa. Così la famigliola di Bonnie, in vacanza con il camper, porta Woody a ritrovare Bo Peep, che nel frattempo si era fatta una vita come single dopo essere stata abbandonata, mentre l’ultimo arrivato della compagnia (Forky, che appunto nasce da una forchetta, invero un personaggio assai debole) finisce in un pericoloso negozio, dove la bambola Gabby Gabby con 4 sinistre marionette da ventriloquo cerca di impossessarsi del riproduttore vocale a cordicella dello sceriffo Woody. Diretto da Josh Cooley, pensato e scritto dalla solita brigata geniale, da John Lasseter a Andrew Stanton, “Toy story 4” chiarisce come non sempre insistere sia utile (se non economicamente): certo ci sono momenti spassosi e commoventi, ma nulla sorprende più e tre volte la battuta “Yes, we Canada” è un po’ troppo. Non stupisce nemmeno che alla fine coppie e famiglie si consolidino, come il marchio Disney ormai sembra imporre, perdendo quella carica dissacrante delle prime opere: anche Forky trova la sua compagna e Bo Peep può fare a meno della sbandierata, spavalda autonomia. Voto: 6.

L’ULTIMA ORA
– In un autorevole collegio privato francese arriva come supplente il giovane professore Pierre. Chiamato a sostituire un collega che durante la lezione si è gettato dalla finestra, scopre che un gruppo di studenti, i più bravi, oltre a mostrarsi arroganti e cinici, sta perfezionando un sistema di prova del dolore sempre più audace. Il rapporto deflagra presto in un gioco al massacro, nell’indifferenza del preside e degli altri insegnanti, mentre nei pressi della scuola, una centrale nucleare è una minaccia costante. Sebastien Marnier con “L’ultima ora” disegna una parabola nichilista di una gioventù che si prepara a soccombere nel modo più spettacolare, scegliendo modi e tempi nel farlo. Si direbbe il canto opposto alle battaglie di una Greta Thunberg e al movimento del “Fridays fo future” con un eccesso di intellettualismo, in un percorso che diventa strada facendo didascalico. Peccato perché la prima parte si muove in sentieri più misteriosi e crea una bella atmosfera, dove la tensione si nutre di perfidia e diaboliche contrapposizioni, che mettono a dura resistenza il professore. Presentato l’anno scorso alla Mostra di Venezia e partendo come un film di Avranas (“Miss violence”), se ne discosta bene presto, quanto meno abbandonando ogni pretestuosità, dando voce a un’inquietudine dolorosa e respingente, che immerge lo spettatore in un clima di (s)costante allarme. Voto: 6.
  Ultimo aggiornamento: 05-07-2019 08:29 © RIPRODUZIONE RISERVATA