L'ex marito la gettò in un cassonetto in fin di vita, il dramma di Francesca: «Noi sopravvissute senza risarcimento»

Martedì 25 Giugno 2019 di Rosalba Emiliozzi
L'ex marito la getto in fin di vita in un cassonetto Francesca: «Noi sopravvissute senza risarcimento». Nella foto Francesca Baleani
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Per un attimo ha pensato che il terremoto, quell’immensa paura di morire che genera, potesse aiutarla a ricordare. A scuotere una parte della mente  assopita o che forse non vuole sapere. Cosa? La mattina del 4 luglio del 2006 quando l’ex marito Bruno Carletti, 51 anni, allora direttore del teatro comunale di Macerata, l’ha gettata senza pietà in un cassonetto dei rifiuti dopo averla bastonata, strangolata  e riposta in un portabiti ancora viva. «Non ricordo nulla, più mi sforzo e più non riesco».

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La mente di Francesca Baleani, 49 anni, che lavora all’azienda speciale Ex.it della Camera di Commercio delle Marche, ha cancellato tutto: l’ex marito che suona alla porta, i cornetti che dice di aver portato per la colazione insieme, poi il bastone, i pugni al viso, la corsa disperata in bagno, le mani insanguinate di lei stampate sulla porta, lui che riesce a entrare e come una furia la massacra, con il filo del telefono cerca di strangolarla ma si spezza e continua a stringerle il collo con le mani, i lividi, il dolore, la rabbia, poi il crollo e un rituale quasi da palcoscenico: il corpo trascinato dal quarto piano al garage e spinto dentro al portabagagli dell’auto e l’orrore, l’abbandono a un paio di chilometri, in una zona di campagna dentro un cassonetto maleodorante come si getta un oggetto che ormai non serve più, senza voltarsi indietro. Nel portabagagli restano altre valigie, quelle di una vacanza con la nuova compagna.

«Tante cose non mi tornano nella sua versione, per questo vorrei tanto ricordare - dice Francesca Baleani – io, ritardataria cronica che quella mattina avevo un’importante riunione di lavoro, non mi sarei mai trattenuta a fare colazione a casa con il mio ex, io che prendo solo un latte e caffè in piedi la mattina e non apparecchio. Mi pare molto strano, ma purtroppo abbiamo solo la sua versione». Poi riprende fiato, la voce stanca e aggiunge: «La cosa che mi fa più schifo è quando mi ha lasciata lì. Lo immagino risalire in auto, girare la chiave, dare un ulteriore sguardo al cassonetto e andarsene. Ma cavolo, mi dico, fai una chiamata, anche anonima, dì che c’è una donna in quel cassonetto: correte, mandate un’ambulanza. Solo un mostro può mollare un essere umano  lì, in campagna da solo. Questo è feroce». A salvarla è stato un diciottenne che passava per caso e ha udito i suoi lamenti.

L’ex marito è stato condannato per tentato omicidio a 9 anni, già scontati con gli sconti della legge Gozzini, ed ora è libero e ha ripreso anche a fare teatro. Lei, dopo la rianimazione e mesi di riabilitazione, ha voluto con tutte le sue forze tornare a una vita normale: casa, ufficio, famiglia, un nuovo amore, un gatto, l’impegno silenzioso nell’aiutare altre vittime, gli incontri a scuola con i ragazzi. Ha donato la sua storia ad “Amore Criminale” di Matilde D’Errico, allo spettacolo teatrale di Valeria Perdonò “Amorosi  assassini”, al monologo di Clara Galante “Non sono stata finita”.

La vita di Francesca è cambiata per sempre e ci deve fare i conti tutti i giorni. «Ogni volta che mi alzo la mia parte sinistra non va, la gamba stenta a ripartire, devo fare costantemente palestra per non ciondolare quando cammino, la mia spalla, dove mi ha colpito con il bastone, non tornerà mai come prima - racconta Francesca, mamma tedesca e padre italiano - avevo il miocardio schiacciato quando mi hanno trovata, probabilmente pestato e assieme allo strangolamento e tentativo di soffocarmi con un asciugamano attorno alla testa ho oggi danni permanenti causati da un’ipossia cerebrale per mancanza di ossigeno al cervello. Parlo così come mi sente, quando mi stanco, a fatica». Non si è fatta mai fotografare in sedia a rotelle o sul letto d’ospedale  «per dignità», dice. Nè ha scritto libri o si è candidata in politica. Dopo sei mesi, quando parlava con molta difficoltà e si muoveva a scatti, è voluta tornare a lavorare. E dopo 13 anni? «Chi, come me, sopravvive non ha un risarcimento, non ha aiuti per le spese mediche, le cure, il sostegno psicoterapeutico  e i costi per l’assistenza legale. Anzi,  deve tornare a lavorare subito perché è a rischio licenziamento e non se lo può permettere».

Oggi Francesca è una donna ritrovata e chiede che la sua dignità non sia nuovamente calpestata: «Carletti non ha ancora davvero  finito di estinguere  la pena, manca il risarcimento. Ora che è libero e immagino stia lavorando chiederei che venisse onorata fino in fondo la sentenza che ha previsto anche un risarcimento danni alla parte offesa. Mi fa riflettere e mi ferisce, lo ammetto, la totale inconsapevolezza di quanto mi è stato realmente fatto e la conseguente libertà addirittura di decidere se versare o non versare una quota mensile stabilita con i suoi avvocati che, diciamolo, è irrisoria e che comunque ha un valore anche simbolico di riconoscimento di quanto inflitto a un essere umano».

Francesca non è mai intervenuta, né ha interferito nelle decisioni che hanno contraddistinto l'iter di esecuzione della pena inflitta a livello giudiziale per il reato commesso. «Ho sempre avuto fiducia nel mio avvocato Paolo Carnevali e nella legge e non sono una forcaiola: se il giudice ha stabilito che scontasse meno anni in carcere e come e dove, non mi interessa. Né mi interessa cosa fa o dov'è».

Il non rispetto degli impegni presi, però, può far pensare che quanto accaduto sia una cosa da nulla che alla fine si è risolta. «No, non lo è. E anche se non sarò né più povera e né più ricca con il risarcimento che mi è stato riconosciuto io non mollo. Non mollo perché se lo facessi è come se io stessa mi dicessi, va bene, non fa niente, non è successo niente. E invece no, perché io ad ogni piede che appoggio per camminare, per ogni cosa che devo rinunciare a fare o devo fare in modo diverso dagli altri, per ogni parola articolata male in pubblico e per ogni volta che rinuncio allora a parlare, per ogni volta che prendo una penna in mano e non riesco a scrivere, io mi ricordo. Lo devo a me, ai miei mesi di ospedale, ai miei pianti notturni e di angoscia per il mio futuro, alle spese sostenute per curami a quelle che dovrò affrontare negli anni perché non guarirò mai del tutto, al netto dalla gioia di sapermi viva lo sappiamo tutti che sono arrivata a un punto - grazie a Dio accettabile - ma da quello posso solo peggiorare. Non c’è cura per un’ipossia cerebrale. Non mollo perché se io per prima mollo è come se mollassi tutti i genitori, i figli, fratelli e sorelle delle donne ferite o morte ammazzate, i genitori che si prendono cura dei nipoti rimasti orfani della madre e che lottano e ancora attendono un risarcimento, perché sarebbe rinunciare a un diritto e, ancora una volta, dirsi che non è successo niente. E offenderei chi di mano violenta è morta. Io sono sopravvissuta e sono grata per questo, tuttavia questo non è risarcimento. Come sono oggi è solo grazie alla mia forza e alle persone che mi sono state accanto e, soprattutto, vivere, non è il risarcimento per chi pensa magari che dovrei essere già contenta per il fatto che non mi ha ammazzata».
 

Ultimo aggiornamento: 26 Giugno, 22:18 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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