Con pesi ribaltati nel governo rotta complicata

Lunedì 27 Maggio 2019 di Alessandro Campi
In attesa di capire nel dettaglio, da un lato, come il voto italiano s’è incrociato con quello degli altri Paesi europei e, dall’altro, quale sia la nuova geografia politica del vecchio continente alle prese con la sfida/minaccia dei populismi (la storica maggioranza popolari-socialisti sembrerebbe venuta meno e dovrà essere eventualmente puntellata da liberali o verdi), si può provare a ragionare – sulla base dei primi dati – sui possibili effetti interni (a partire da quelli sul governo in carica) di questo attesissimo election day.

Che non ha riguardato solo l’Europa, ma una regione strategica come il Piemonte e ben 3782 amministrazioni comunali (tra cui 25 capoluoghi). Anche se i dati sulle amministrative – a loro volta decisivi per capire come si stanno redistribuendo gli equilibri fra le diverse forze politiche – saranno disponibili solo a partire dal pomeriggio di oggi. Le forbici statistiche invitano a ragionamenti prudenti, visto che mai come questa volta certe soglie percentuali risultano psicologicamente più importanti dei risultati effettivi che alla fine verranno registrati. 
Partiamo dalla Lega, data dalle proiezioni intorno al 33% e dunque oltre la quota-simbolo del 30%. Alle Europee del 2014 ebbe il 6,15%. Alle politiche del 2018, ottenne il 17,3%. Potrebbe dunque parlarsi di un trionfo clamoroso, se non fosse che sino a poche settimane fa circolavano sondaggi che davano il partito di Salvini oltre il 36%. Se si parte da simili attese si potrebbe persino sostenere che c’è stato un arretramento o un mancato successo, ma sarebbe francamente ridicolo. La Lega è largamente il primo partito italiano, con una crescita che investe ormai anche le regioni del centro e del sud. 

Di grande significato politico è il sorpasso del Pd sul M5S delineato dalle proiezioni. Di quest’ultimo era previsto un drastico arretramento, già ampiamente annunciato dai tonfi nelle diverse tornate amministrative degli ultimi mesi. Dal primo si attendevano, dopo l’esordio della segreteria di Zingaretti, dei segnali forti di rilancio. Essere il secondo partito italiano, anche solo per un punto percentuale, può fare una grande differenza, sempre dal punto di vista simbolico. Anche ai fini di una possibile alleanza tra i due partiti, nel caso dovesse implodere – come qualcuno auspica o prevede – l’attuale coalizione giallo-verde. E’ chiaro che toccherebbe a quello con più voti dettare termini e condizioni di un’eventuale collaborazione. Ma non è solo questo il punto: per il Pd (dato al 21,7%) aver superato i grillini (scesi sotto la cifra simbolica del 20%) significa, tra le altre cose, essersi ripresi molti dei suoi voti in fuga e aver dimostrato che il voto di protesta, quando non sorretto da una minima capacità progettuale, produce successi effimeri. Senza dire che ne esce ampiamente rafforzata una segreteria che all’interno stesso del Pd, col solito autolesionismo, qualcuno già voleva considerare di semplice transizione. 

Per il partito di Berlusconi la soglia della resistenza, da leggere come un auspicio di ripresa in vista della rinascita del vecchio centrodestra, che è il sogno politico mai abbandonato del Cavaliere, era il 10%. Obiettivo che non sembra essere stato raggiunto, visto che le proiezioni si fermano all’8,5%. E’ comunque la conferma che esiste uno zoccolo elettorale moderato impermeabile alle sirene del radicalismo salviniano e che potrebbe spingere la Lega a valutare con più attenzione le sue strategie future. Specie se anche il voto amministrativo (come sembrerebbe dall’esito della battaglia per il Piemonte) dovesse confermare il gradimento degli elettori per la storica alleanza tra Lega e Forza Italia. Cui naturalmente bisogna aggiungere Fratelli d’Italia, attestatosi su una percentuale intorno al 6%. Complessivamente fa (almeno in potenza) il 46-47% degli elettori italiani: una forza in grado di vincere, se unita, qualunque competizione elettorale, come il vecchio e indomito Berlusconi non smette di ripetere.

Quasi certa l’esclusione dal futuro Parlamento europeo della lista super-europeista della Bonino (3,4%). L’esito sarebbe stato forse diverso se Carlo Calenda, invece del Pd, avesse scelto di affiancare la pattuglia radicale nella comune battaglia per avere “più Europa”. Ma a questo punto è un discorso che lascia il tempo che trova.
Una cosa che colpisce, stando ai primi risultati, è lo scarso peso in Italia del fronte verde-ambientalista, che altrove in Europa sembra invece rappresentare la vera novità di queste elezioni: basta guardare ai voti da esso ottenuti dalla Germania all’Austria, dalla Francia alla Danimarca. Dinnanzi allo scontro fortemente ideologico tra sovranisti ed europeisti, i Verdi sempre più rappresentano in molti Paesi una“terza via”. Sono fautori dell’integrazione europea, ma senza fanatismi. E hanno una visione pragmatica della politica che piace ad un elettorato sempre più trasversale composto da giovani e anziani. 

Si diceva all’inizio del governo e del futuro che l’aspetta dopo queste elezioni. La Lega in crescita, il M5S in decrescita, fanno insieme un 50% abbondante dei consensi di coloro che si sono recati alle urne. Gli equilibri parlamentari restano chiaramente quelli definiti dalle elezioni politiche del 4 marzo 2018, ma questo voto europeo è stato, tra le altre cose, anche un grandioso sondaggio su come gli italiani hanno nel frattempo modificato i loro orientamenti. Sulla carta, al netto dei malumori grillini per il significativo arretramento che hanno registrato e della soddisfazione salviniana per una vittoria a dir poco netta, non ci sono ragioni numeriche per dichiarare finito il “contratto di governo”. Resta però da capire se dopo quest’inversione assai drastica dei rapporti di forza politici tra i due contraenti ci sono interessi e ragioni politiche sufficienti a farlo durare.

Mettiamo insomma che si vada avanti, non foss’altro per la paura di Di Maio che elezioni politiche anticipate rappresenterebbero, statuto del Movimento alla mano, la fine della sua avventura politica avendo egli esaurito i due mandati parlamentari che gli spettavano. Ma cosa si conta di fare insieme nei prossimi mesi? Le materie rimandate al dopo-elezioni - Tav, flat tax, autonomia regionale – sembrerebbero tutte di interesse preminente per la Lega, meno per il M5S. Quale obiettivo quest’ultimo cercherà allora di intestarsi, visto che non si può vivere solo di appelli all’onestà? Ci sarà un nuovo “contratto di governo”, preludio per un rimaneggiamento dell’esecutivo nella sua attuale forma, o ci si limiterà a vivacchiare in attesa dell’inevitabile incidente di percorso? O ha ragione chi sostiene che dopo questo successo europeo la Lega ha tutto l’interesse a passare all’incasso del voto nazionale?
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