Un colpo alla grandeur che deve far riflettere

Mercoledì 17 Aprile 2019 di Franco Cardini
Ora che i fuochi si sono spenti, parliamone. L’altro ieri avevamo tutti il cuore in gola e le lacrime agli occhi. Notre Dame bruciava. Era l’incubo che stava per avverarsi quell’ormai lontano giorno dell’estate ’44, quando Hitler tempestava al telefono riversando nelle orecchie del governatore militare germanico di Parigi tutta la sua rabbia: «Parigi deve bruciare!». Ma il vecchio soldato, messo dinanzi all’antico dilemma dell’opposizione fra Antigone e Creonte, decise che anche se la legge è legge e il principe lo vuole, a una legge iniqua non si deve obbedire. L’altro ieri, il primo giorno della settimana santa, abbiamo visto con i nostri occhi quel che i parigini avevano temuto di dover vedere 75 anni fa: le fiamme levarsi alte sul tetto della loro cattedrale e la guglia di 93 metri eretta da Eugène Viollet-le-Duc cadere fasciata dal fuoco al pari di un immenso fiammifero. 

Ieri Parigi si è leccata le ustioni e noi abbiamo tirate le somme: e anche un sospiro di sollievo. Danni ingenti, il tetto caduto sulla grande navata sottostante, ma nulla d’irreparabile. Danni gravi, una lunga degenza nella cattedrale trasformata in cantiere per i prossimi anni: e sarà tutto. Quanti anni? Qualcuno, pessimista, parla di una decina. In realtà, anche visto l’enorme afflusso di capitali volontariamente messi a disposizione da grandi lobbies private (un po’ di generosità, molta strategia d’immagine…), ci vorrà forse molto meno. De Gaulle, o Mitterrand, o Chirac, e perfino Sarkozy, sarebbero stati perentori: pochi mesi e si riapre, se non addirittura la promessa di poter celebrare di nuovo messa già a Pasqua in mezzo a ponteggi provvisori. Perché no? Sarebbe stata una bella sfida.

Macron è più circospetto. Nessuno saprà mai che cosa davvero pensasse, mentre compunto tra l’arcivescovo e Madame la Maire pronunziava il suo discorso di circostanza: prudente e misurato, ma anche - a modo suo - energico. Ora il mondo ci guarda, rimbocchiamoci le maniche. Il punto è che il presidente, se Notre Dame non si fosse incendiata, avrebbe detto esattamente la stessa cosa con parole diverse. Lunedì sera in Tv avrebbe dovuto affrontare pubblicamente il Gran Débat con un’agguerrita rappresentanza di cittadini delusi, agguerriti, furibondi. Era tutt’altro che scontato che ne sarebbe uscito indenne. Gli è davvero dispiaciuto essere stato costretto dall’imprevedibile fato a rinunziare al match? O si è sentito “miracolato” da un intervento che tuttavia avrà esitato egli stesso a definir “divino”: come si fa a ringraziare Iddio per una cattedrale che brucia? Comunque, l’incidente lo ha salvato da un confronto difficile e ora gli darà l’alibi per non impegnarsi in una campagna elettorale europea troppo dura: ha escluso di farlo, per risparmiare denaro ed esposizione mediatica. Una sorta di penitenza laica.

Macron ha seguito, in tutto ciò, una procedura che noialtri cugini poveri e talora meno eleganti non riusciamo mai a mettere adeguatamente in campo: l’uscire dalla mischia con eleganza e quasi con un tantino di signorile superbia. Il servizio pubblico francese è maestro in questo. Se accusi quello italiano di una disfunzione (e Dio sa se ce ne sono), giù tutti i nostri compatrioti coinvolti a chiedere scusa e ad ammettere che sì, siamo una frana, non funziona nulla eccetera. Ebbene: non è che Oltralpe siano rose e fiori. Ma se qualcosa non va e ti provi a protestare, voilà: sguardi gelidi e sorrisi di sufficienza. Si può anche sbagliare, ma guai ad ammetterlo. Una bella lezione per noialtri, che siamo abituati a scusarci perfino quando abbiamo ragione.

Ed è sempre stato così con la Sorella Latina, anche nella grande storia. La Francia non ci ha mai perdonato la «pugnalata alla schiena» del 10 giugno 1940. La guerra che sembrava finita, i tedeschi ormai a Parigi, e l’Italia maramalda che invade dalle Alpi Occidentali e nemmeno ce la fa a piegare un esercito ormai quasi in rotta. Dio, che vergogna… Ma che dire della Sorella Latina quando, alla fine degli Anni Settanta dell’Ottocento, ci aveva invitato - in concorrenza con gli inglesi - a spartire con lei il banchetto coloniale ai danni dell’impero ottomano occupando insieme la Tunisia e poi preferì rappacificarsi con la vicina insulare, la rivale eterna, e rifilarci in piena faccia quello che Giosuè Carducci definì “lo schiaffo di Tunisi” soffiandoci una terra nordafricana ch’era universalmente pensata da tutti come il naturale sfogo demografico della Sicilia? Certo, non coinvolgendoci nell’avventura tunisina ci risparmiò un sacco di guai post-coloniali nel secolo successivo: ma le intenzioni non erano certo farci piacere. Per non parlare di cose ancora peggiori, come il 1914, quando la Francia fece di tutto per concorrere a scatenare una nuova guerra piena com’era di spirito di révanche nei confronti della Germania, e c’indusse di conseguenza a scendere in campo al suo fianco – pagando profumatamente i nostri gruppi interventisti: ne seppe qualcosa quel giornalista romagnolo, tal Mussolini… - salvo poi a vittoria ottenuta, nella conferenza di Parigi del ’19, negarci quanto era stato pattuito in termini di ampliamenti territoriali. Ancora una volta: forse le pretese italiane non erano giuste. Ma certo il nostro governo fu ingannato e si ebbe l’impressione che avesse mandato il popolo al macello per nulla.

È così: la grandeur francese ha sovente ingannato e umiliato la forse troppo ingenua diplomazia italiana. In fondo, qualcosa del genere emerse non più tardi di pochi anni fa, nel 2011, quando l’Italia alla fine fu attirata nella trappola organizzata soprattutto da francesi e inglesi ai danni di Gheddafi e il nostro governo si trovò nella situazione di dover “mollare” un personaggio certo pieno di ombre, una figura ambigua e contraddittoria, ma che in fondo poche settimane prima avevamo trattato come un amici e invitato in pompa magna a Roma. 
C’è sempre stato qualcosa che non ha funzionato del tutto, nel pur ordinariamente amichevole rapporto tra Francia e Italia: così simili in tante cose, dalla lingua al paesaggio ai gusti alle vicende storiche, eppur tanto simpatici e “sfigati” e magari perfino cialtroni noi, tanto alteri e scostanti o distrattamente compiacenti loro. Ora, con l’Unione Europea che forse salterà per aria ma forse dovrà cambiare registro, siamo di nuovo sulla stessa barca. Ebbene: e se una buona volta ci decidessimo a guardarci sinceramente negli occhi, da buone Sorelle, da Sorelle sul serio? O continueremo a giocare ai Fratelli-Coltelli?
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