«Battisti colpevole, ma no all'ergastolo». Parla il "maestro" dell'ex terrorista

Mercoledì 3 Aprile 2019 di Angela Pederiva
Arrigo Cavallina oggi nella sua casa di Verona
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VERONA - Il passato che non passa ha il volto di un uomo seduto in salotto, nella sua casa in centro storico a Verona. I capelli grigi di un pensionato che è stato un giovane rivoluzionario del post Sessantotto. Lo sguardo mite di un condannato per banda armata che ha pagato il suo debito con la legge (tanto da ottenere la riabilitazione) ed è oggi un volontario cattolico sul fronte della giustizia (ma fuori dal carcere). Il sorriso timido che s'increspa in una smorfia di fastidio, ogni volta che il suo nome e il suo cognome vengono associati alla figura di Cesare Battisti. «Non mi sono mai nascosto, però basta, sono trascorsi quarant'anni», mormora Arrigo Cavallina, «l'ideologo dei Proletari armati per il comunismo», per citare un'altra delle etichette che gli stanno appiccicate addosso da quattro decenni. Ma sulle sue spalle grava appunto la dolorosa consapevolezza di essere stato colui che, nel penitenziario di Udine, nel 1976 politicizzò quello che fino ad allora era stato solo un delinquente comune. E così, a dieci giorni dalla confessione di Battisti, per la prima volta Cavallina accetta di parlarne pubblicamente con il Gazzettino.

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Si è chiuso un cerchio?

«La confessione di Cesare non aggiunge niente alla verità storica. Oltre a non fare nomi, come d'altra parte facemmo anche noi dissociati, lui stesso non avrebbe da dire assolutamente nulla che non sia già noto. Ma è triste pensare che una storia si chiuda con la sepoltura di una persona, per quanto si sia comportata in modo sgradevole, dentro l'isolamento di un carcere. Del resto tutti gli ergastoli sono brutte chiusure».
 

 


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Quale sarebbe una bella chiusura, a suo parere?
«Un'altra specie di pena. Il che non vuol dire sottrarsi alla responsabilità, anzi, credo che ci sia più riconoscimento di responsabilità e più utilità sociale nel mettere le proprie capacità lavorative e intellettuali, dopo aver fatto dei danni, a servizio delle vittime dirette, o almeno della società offesa nel suo insieme. Tanto più a distanza di quarant'anni dai fatti. La nostra Costituzione dice che lo scopo della pena è tendere alla rieducazione del condannato: giustamente i padri costituenti immaginavano che il colpevole, fresco delle trasgressioni compiute, avesse bisogno di capirle. Ma qui parliamo di una persona che dopo l'evasione dal carcere nel 1981 non ha più commesso reati, visto che la latitanza non lo è, secondo il codice penale italiano».
Vuole forse dire che la rieducazione alla pena di Battisti è già avvenuta, malgrado i 38 anni di fuga?
«Voglio dire che Cesare si era già dissociato 38 anni fa. Lo so per certo perché ne abbiamo parlato».
In quale occasione?
«Nel nostro ultimo colloquio, appunto nel 1981. Ci trovavamo a Rebibbia, dove lui credo fosse in transito per un processo, mentre io ero detenuto. Avevo avuto la grande fortuna di essere destinato a un carcere dove esisteva un'area per noi dissociati, il che mi metteva finalmente al riparo dai grossi pericoli che avevo sfiorato ad esempio a San Vittore, dove eravamo destinatari di feroci vendette da parte degli irriducibili, spesso attraverso ergastolani che non avevano nulla da perdere nell'accoltellare qualcuno. Era la prima volta che lo rivedevo, dopo l'incontro da liberi del 1979 in cui eravamo ormai in notevole disaccordo. Cesare mi disse che dov'era recluso doveva stare molto attento a non manifestare la sua dissociazione, perché viveva in mezzo a brigatisti ancora in servizio e avrebbe corso seri rischi per la sua vita. Inoltre quel giorno lui convenne con me sul fatto che l'esperienza che avevamo fatto era non solo conclusa, ma anche sbagliata all'origine. Ne ebbi un'ulteriore prova con la sua evasione dal carcere di Frosinone, aiutato da un gruppetto legato a Prima Linea: per un attimo pensai che si facesse reclutare di nuovo, invece scappò via, non rimase a fare il combattente».
Però si proclamò sempre innocente, pur sapendo di non esserlo, stando a quanto ha ammesso adesso.
«Cesare si è ritrovato, prima in Francia e poi in Brasile, circondato da persone che lo sostenevano perché ritenevano che in Italia ci fosse una minaccia per la democrazia, che i processi politici avessero criminalizzato gli innocenti, che lui fosse un uomo dalle idee sovversive ma che non avesse fatto nulla di male. Se avesse ammesso di aver contribuito ad ammazzare quattro persone o avesse riconosciuto che i processi erano stati sostanzialmente giusti, avrebbe perso ogni supporto e sarebbe stato estradato: così, fra la menzogna e l'ergastolo, ha scelto di dirsi perseguitato pur di restare libero. Sia chiaro, non lo sto giustificando, ma non vorrei essere stato nei suoi panni. Chi ora lo attacca, chieda a se stesso quello che mi chiedo io: cosa avrei fatto? Personalmente non lo so».
Lei però ha scelto di dissociarsi subito e, a differenza di Battisti, non ha materialmente assassinato nessuno, pur essendo stato condannato per concorso nell'ideazione dell'omicidio di Antonio Santoro.
«Lasciai i Pac perché non ero d'accordo con l'idea di uccidere Pier Luigi Torregiani e Lino Sabbadin. In quell'ultima riunione dissi agli altri: voi andate per la vostra strada e io vado per la mia. Ma questo non mi solleva dalle responsabilità morali, quelle cose sono successe sulla spinta che ho dato anch'io, fornendo alla banda Pac un apporto ideologico importante».

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In quali termini?
«Non c'era più la speranza di una rivoluzione globale, però avevamo l'aspirazione di autonomia, di non sottostare alle leggi del mercato, che non sono solo economiche ma anche culturali e educative. Perciò credevo che il nostro piccolo gruppo potesse riorganizzarsi una vita senza cedere alle lusinghe della merce. Invece da un certo punto in avanti vedevo che gli altri pensavano che il loro essere rivoluzionari si esaurisse nel combattimento politico all'interno della fabbrica, dopodiché andava benissimo passare il resto della giornata al bar o tenere le armi in mano per sentire un certo senso di potere. Oltretutto guardandomi indietro mi accorgevo che, una alla volta, le persone erano state ammazzate o incarcerate e che il popolo, quello che secondo noi avrebbe dovuto darci ragione, in realtà non ci poteva vedere. Insomma, un fallimento».
Per lei Battisti è ancora «un malavitosetto romano dall'intelligenza vivace», come lo definì dieci anni fa, o uno spettro che la ossessiona da quaranta?
«Sicuramente uno spettro. Ma la colpa non è sua, dato che i rapporti si sono interrotti tanto tempo fa, bensì vostra, di voi giornalisti intendo».
E lei chi è stato per Battisti? Un cattivo maestro?
«L'espressione è brutta, però purtroppo è qualcosa di vero. Peraltro lui non è l'unica persona per la quale la mia conoscenza ha pesato. Una mia ex fidanzata non si sarebbe mai sognata di dedicarsi alla politica estremista, se non fosse stata in relazione con me, il che le ha causato un sacco di guai, di cui paga ancora il conto. Come spiego ai ragazzi che incontro nelle scuole, un reato non coinvolge solo chi lo compie e chi lo subisce, ma anche la gente che si spaventa, i familiari dell'autore, i parenti della vittima...».
A proposito: perché non li ha mai incontrati, se non dentro alle aule di tribunale, com'è capitato con la vedova Sabbadin?
«Chiedere di incontrarli mi sembrerebbe di infliggere loro una nuova violenza inutile».
Cosa pensa degli intellettuali che continuano a difendere Battisti, sostenendo che il 41-bis sia un sistema di tortura?
«La critica a quel regime ha i suoi fondamenti. Anche il rapporto di Mauro Palma, garante nazionale dei diritti delle persone detenute, ha messo in evidenza l'incongruenza tra la giusta finalità del sistema e le misure concrete di attuazione. Detto ciò, però, questi intellettuali dovrebbero informarsi meglio: in Italia non c'è carcere per oppositori politici».
E che idea si è fatto dei suoi ex compagni tuttora latitanti, come i veneti Luigi Bergamin e Paola Filippi?
«Sono un po' preoccupato per il vento politico che tira adesso tra Italia e Francia. Parliamo di persone che hanno sbagliato, ma che da 40 anni conducono una vita assolutamente regolare. A chi gioverebbe la loro carcerazione? Non alle vittime, non ai cittadini. Non distruggiamo altre vite: meglio una giustizia riparativa, anche per loro, come per Cesare».


Andrebbe a trovarlo in carcere ad Oristano?
«Assolutamente no. A lui non importerebbe niente e io non saprei cosa dirgli. Non avrei né consigli da dare né rimproveri da fare. Chi sono io per giudicare? E poi penso che le orecchie sappia tirarsele da solo, dopo quarant'anni».
Angela Pederiva
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Ultimo aggiornamento: 16 Aprile, 00:53 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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