Clochard bruciato vivo per noia: «Ogni ​giorno penso a quello che ho fatto»

Venerdì 1 Febbraio 2019
Clochard bruciato vivo per noia: «Ogni giorno penso a quello che ho fatto»
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«Voglio ripartire e sto ripartendo, ma non passa giorno senza che io pensi a quello che ho fatto». Le parole pronunciate ieri dal 17enne, davanti al giudice Maria Teresa Rossi, sono molto diverse dalle dichiarazioni consegnate nel febbraio del 2018 al verbale dell'interrogatorio, da quelli che erano due ragazzini di 16 e 13 anni impegnati a scaricarsi l'uno sull'altro la responsabilità di un tremendo delitto (L'OPINIONE - Per Paolo Crepet dovrebbero «passare ogni giorno in un reparto grandi ustionati» - LEGGI). «In passato assieme al mio amico sono andato a infastidirlo», riferì il più grande. «Lo facevamo per noia», confermò il più piccolo.

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Uno scherzo sfuggito di mano, oltre le previsioni dissero entrambi: «Dall'esterno si vedeva solo del fumo», precisò il primo; «Ero convinto che Baffo fosse in grado di uscire dall'auto», concordò il secondo. Agli atti dell'inchiesta figura anche la registrazione di una conversazione tra i due. Il sedicenne provocava il tredicenne: «Quando eravamo dal kebabbaro cosa mi hai detto? Ho realizzato il mio sogno di ammazzare una persona». Risposta: «Il mio sogno era ammazzare un gatto».
 

IL RITRATTO
La difesa del 17enne, rappresentata in aula dall'avvocato Giovanni Bondardo, lo descrive come un ragazzino pesantemente segnato da un'infanzia difficile in un Paese dell'Est: la severità del padre militare, la lontananza dalla madre emigrata in Italia. Poi il ricongiungimento con la mamma, ma anche l'educazione rigida, un contesto anaffettivo, le frequentazioni con gli sbandati, l'incontro con l'amico sbagliato. Fino a quella sera di fuoco. E quindi la misura cautelare, il processo, ora la messa alla prova. Il suo difensore e l'assistente sociale l'avevano preparato all'eventualità più dura: la condanna al carcere. Invece nel pomeriggio il 17enne è potuto rientrare nella comunità in cui vive da diversi mesi, per sostenere già in serata un esame scolastico, visto che per recuperare il tempo perduto sta affrontando due anni in uno. «Pulisce gli escrementi in un canile e aiuta le persone con disabilità in una struttura», racconta chi lo sta sostenendo, a proposito delle attività di volontariato su cui potrebbe essere misurata la sua redenzione.

LA GIUSTIZIA
Un esito che Salah Fdil, nipote del povero Ahmed, non può accettare. «Ma non me l'aspettavo nemmeno io», confida l'avvocato Alessandra Bocchi, che l'ha assistito come semplice persona offesa. «Prendiamo atto dell'ordinanza e la accettiamo aggiunge la legale ma non la condividiamo, vista la gravità del reato: parliamo dell'omicidio volontario, oltretutto aggravato dalla minorata difesa, di un uomo arso vivo. Sappiamo benissimo che è prevista l'osservazione, la risocializzazione, al ripresa del minore. Ma l'atrocità di questo fatto e delle confessioni successive ci avevano indotti a ritenere che potesse essere un'altra la definizione del procedimento. Per carità, nulla è ancora detto: se la prova non dovesse avere un esito positivo, si potrebbe arrivare a una sentenza di condanna. Ma capisco l'amarezza dei familiari. Nessuno voleva vendetta, ma solo che venisse fatta giustizia. Invece il ragazzino non si è neppure scusato per ciò che ha fatto. Questa decisione ha il retrogusto dell'impunità». La difesa del 17enne ha spiegato che finora il ragazzo non ha scritto una lettera ai parenti della vittima perché non voleva che venisse scambiata per il tentativo di conquistare la benevolenza del giudice.
A.Pe.

Ultimo aggiornamento: 2 Febbraio, 09:00 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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