Morto durante fermo di polizia, Salvini: «Dovevano offrire cappuccio e brioches?»

Sabato 19 Gennaio 2019
Il luogo dove un 31enne tunisino è deceduto nei pressi di un money transfer a Empoli (Firenze), durante un controllo di agenti polizia
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«Se i poliziotti non possono mettere le manette ditemi voi che dovrebbero fare?». Se lo chiede il ministro dell'Interno, Matteo Salvini, in una diretta Facebook, riferendosi alla morte di Arafet Arfaoui, il 31enne deceduto ieri sera a Empoli dopo essere stato colto da arresto cardiaco durante un fermo di polizia in un money transfer. Si infiamma dunque la polemica sul caso del tunisino morto. «Buon sabato ai poliziotti - prosegue Salvini - che a Empoli, poche ore fa, facendo il loro lavoro, hanno ammanettato un violento, un pregiudicato, che, purtroppo, poi è stato colto da arresto cardiaco. Ma se i poliziotti non possono usare le manette per fermare un violento, ditemi cosa dovrebbero fare, rispondere con cappuccio e brioches?»

La vicenda ha riacceso il dibattito sulle modalità di intervento della polizia e del 118. In campo è sceso Salvini e a tutela del del personale è intervenuto il capo della polizia Franco Gabrielli: «Io rispetto le vittime e i loro familiari, chiedo che analogo rispetto sia riferito a uomini e donne che lavorano per riaffermare le legalità. Se qualcuno ha sbagliato pagherà per un giusto processo e non per le farneticazioni del tribuno di turno», ha affermato.

La procura di Firenze un fascicolo per omicidio colposo, per il momento a carico di ignoti, sulla vicenda. Quando si è sentito male l'uomo era a terra, aveva la manette ai polsi e i piedi bloccati con un cordino dagli agenti che erano impegnati a contenerlo dopo che aveva dato in escandescenze. Oggi la pm titolare dell'inchiesta, Christine Von Borries, ha ascoltato il personale intervenuto, per fare chiarezza sulla dinamica degli eventi. 

Il ministro dell'Interno aveva già dato «totale e pieno sostegno ai poliziotti», parlando di «tragica fatalità». Risposte più chiare arriveranno dall'autopsia, che sarà eseguita lunedì. Al vaglio l'operato non solo dei poliziotti ma anche dei sanitari, per verificare la tempestività e l'appropriatezza dei soccorsi. In base alla ricostruzione della polizia il 31enne - già noto alle forze dell'ordine, un impiego saltuario come facchino all'interporto di Livorno - si è presentato in un money transfer del centro di Empoli per inviare del denaro. Il titolare, ritenendo che una delle banconote che gli aveva dato fosse falsa, ha chiamato il 113. All'arrivo dei poliziotti Arafet avrebbe dato in escandescenze.

Secondo quanto raccontato da un testimone a Rai Radio 1, prima di agitarsi il tunisino sarebbe stato perquisito per oltre un'ora nel bagno del money transfer. Gli agenti, non riuscendo a calmarlo e dopo essere stati presi a morsi,  hanno chiesto l'intervento del 118 perché si valutasse la possibilità di sedarlo. Per bloccarlo sono stati costretti ad
ammanettarlo e a legargli i piedi. Quando il tunisino è stato colto da malore la dottoressa del 118 era già sul posto.
Sarebbero stati gli stessi quattro agenti che lo contenevano ad avvisarla che qualcosa non andava, facendola avvicinare di nuovo. Poi sono scattate le procedure di rianimazione, andate avanti per 50 minuti.

«Tutto quello che sappiamo sulla vicenda di Arafet Arfaoui, l'uomo di 32anni, italiano di origini tunisine, è che è morto nelle mani dello Stato. Legato mani e piedi. In una stanza, l'unica senza telecamere, di un negozio. Alla presenza di soli poliziotti. Siamo in uno stato di diritto e le sentenze le fanno i tribunali, questo vorremmo ricordarlo al ministro dell'Interno Salvini: i suoi tweet non sostituiscono indagini, referti medici, e decisioni dei giudici. Soprattutto su una questione così delicata, soprattutto nel paese di Stefano Cucchi, Federico Aldrovandi, Giuseppe Uva e altri morti per mano dello Stato». Lo dichiarano Silvja Manzi e Antonella Soldo, rispettivamente segretaria e tesoriera di Radicali Italiani.

Inevitabilmente, l'episodio richiama l'attenzione dei familiari di altre vittime, come Stefano Cucchi, Riccardo Magherini, Federico Aldrovandi, che ravvisano analogie con le loro vicende. Dura Lucia Uva, sorella di Giuseppe, morto dopo essere stato portato in caserma a Varese nel 2008: «Questo è il metodo delle forze dell'ordine. Con l'appoggio di Salvini, ora, hanno la licenza di uccidere». Per gli altri c'è una specie di copione che si ripete. «Dava in escandescenza? Questi fatti sono tutti uguali e sappiamo già come andrà a finire. La quarta sezione della Cassazione dirà che non c'è nessun colpevole», dice Ilaria Cucchi, sorella di Stefano, morto in seguito alle percosse dopo essere stato arrestato.

A Firenze Guido Magherini, padre di Riccardo, morto durante un fermo dei carabinieri nel 2014, parla di una specie di «prassi». «Ogni caso è diverso, non so se ci sono analogie con la vicenda di mio figlio Riccardo - dice -. Però anche nel fatto di Empoli è stato detto che tirava calci, che era in forte agitazione, che non riuscivano a tenerlo. E poi anche questo ragazzo è morto. Sembra una prassi. Si vede che la colpa è sempre di chi muore». Per la madre di Federico Aldrovandi «è come se uccidessero Federico ogni volta. Ed è proprio così».

Luigi Manconi, direttore dell'Ufficio antidiscriminazioni razziali, auspica indagini tempestive e accurate. Il sindaco di Empoli Brenda Barnini ha detto: «Rispetto e credo nel lavoro della Giustizia come unico potere in grado di chiarire le circostanze. Non si strumentalizzi questa vicenda».

«Passano gli anni, la memoria e lo sgomento per questi fatti difficili da comprendere si scolorisce e gli esiti purtroppo di questi ultimi tempi sono sempre uguali: il fatto non costituisce reato», sostiene l'avvocato Fabio Anselmo, legale delle famiglie di vittime di abusi in divisa, che si è occupato tra gli altri dei casi Cucchi e Aldrovandi. «Poi se vogliamo dire che è giusto così, prendiamone atto ma smettiamo anche di stupirci e di indignarci, consideriamo queste morti come danni collaterali che il nostro ordinamento giudiziario dimostra di voler considerare tollerabili o giustificabili», prosegue.

«Come forze dell'ordine siamo sottoposti alla legittima critica dei cittadini, però non vorrei che arrivassimo al punto in cui qualsiasi cosa possa accadere durante un nostro intervento poi ci attribuiscano sempre le responsabilità, altrimenti finiremmo per avere le mani legate. Se quando fermiamo una persona esagitata, dobbiamo usare le manette e poi gli viene un infarto non è colpa nostra», afferma Giuseppe Tiani, segretario del sindacato di Polizia Siap.

«Siamo stati il primo sindacato a chiedere di montare telecamere sui caschi, sulle giacche e sulle auto di sevizio, lanciammo la proposta ormai una decina di anni fa, durante un convegno a Genova con tutte le polizie europee - sottolinea Tiani -. Legalità e giustizia richiedono equilibrio e invece le dichiarazioni di Ilaria Cucchi, a cui noi abbiamo offerto solidarietà, sono ingenerose e denotano riserve mentali da parte sua. Per questo condivido quanto ha affermato il capo della Polizia Franco Gabrielli: un discorso è rivendicare giustizia, un altro avere preconcetti sull'attività di giustizia e di polizia», conclude.

«Purtroppo immaginavamo che il caso di Empoli avrebbe portato a strumentalizzazioni il cui unico scopo è attaccare le forze dell'ordine in maniera molto pretestuosa», afferma Stefano Paoloni, segretario generale del Sindacato Autonomo di Polizia (Sap).

«Per tutti i cittadini vale la presunzione di innocenza. Per le forze di polizia la presunzione di innocenza è rafforzata, perché svolgono un'opera benemerita. Facciano tutte le verifiche necessarie sulla morte del 32enne tunisino avvenuta a Empoli, ma siamo stanchi di sentenze anticipate di condanna sui media ai danni delle forze dell'ordine, che poi in alcuni casi si sono trasformate in sentenze giudiziarie di assoluzione», sottolinea il senatore di Forza Italia Maurizio Gasparri, commentando le dichiarazioni dell'avvocato Fabio Anselmo, che si è occupato tra l'altro dei casi Cucchi e Aldrovandi. Dichiarazioni che sono state all'origine della replica del Capo della Polizia Franco Gabrielli. «Giù le mani dalle divise», conclude Gasparri.

 

Ultimo aggiornamento: 20:56 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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