I complici veneti di Battisti nuove vite fra Padova e Parigi

Martedì 15 Gennaio 2019 di Angela Pederiva
I complici veneti di Battisti nuove vite fra Padova e Parigi
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ALBIGNASEGO (PADOVA) - Secondo la verità processuale ormai cristallizzata in condanne definitive, il 16 febbraio 1979 a Caltana di Santa Maria di Sala erano in tre, fra l'interno e l'esterno del negozio in cui venne trucidato il macellaio Lino Sabbadin, nello stesso pomeriggio in cui nel capoluogo della Lombardia fu ammazzato il gioielliere Pierluigi Torregiani. «Per il Veneto devono ritenersi responsabili quali esecutori materiali Battisti, Filippi e Giacomini, e possiamo fondatamente ritenere che questi fossero tutti e tre al corrente di ciò che contemporaneamente stava avvenendo a Milano ed abbiano agito con la coscienza e la volontà di attuare un omicidio che era stato voluto come reciproca cassa di risonanza di un altro omicidio», si legge nelle 753 pagine della sentenza emessa nel 1988 dalla Corte d'Assise meneghina, al termine del dibattimento-bis sui Proletari armati per il comunismo. Così, nel giorno in cui Cesare Battisti è stato estradato in Italia, abbiamo provato a capire che ne è stato dei suoi complici, entrambi padovani e all'epoca fidanzati (tanto da essere definiti i Bonnie&Clyde delle rapine per l'autofinanziamento dei terroristi): Paola Filippi, l'autista che viveva a Brusegana, e Diego Giacomini, lo sparatore che era originario di Albignasego.

LA COOPERATIVASiamo andati proprio ad Albignasego, perché è nel centro alle porte di Padova che è tornato ad abitare e a lavorare Giacomini, l'unico componente del commando ad aver scontato la sua pena: 18 anni in primo grado, grazie allo sconto previsto dalla legge sulla dissociazione, poi ridotti a 15 e quindi indultati a 12 anni, 11 mesi e 15 giorni, prima dell'affidamento in prova ai servizi sociali a partire dal 1994, all'interno di una cooperativa sociale che ha nel suo codice etico «i principi di trasparenza, onestà, cortesia e senso civico», in cui il 61enne è tuttora occupato e della quale non forniamo dettagli, per rispetto del diritto all'oblio. «Direttore», lo qualificava una nota del Comune di Venezia del 2011, a commento di uno dei progetti in cui è coinvolta la coop, attiva nel reinserimento lavorativo delle persone svantaggiate. «No, è un semplice impiegato, che opera con noi da tanti anni», ci dicono in sede, prima di invitarci a non chiedere altro di lui: «Non ha mai parlato con nessuno e non lo farà neanche questa volta, perché ha bisogno di stare tranquillo».



LE PAROLELa sua confessione, giudiziaria e umana, è agli atti del processo di trent'anni fa. Parole sofferte, secondo i giudici, per i quali fu «sincera e totale» la sua dissociazione dal terrorismo. Ha raccontato Giacomini: «Partimmo, entrammo io e un altro compagno (Battisti, ndr.), nel negozio, e sparai al signor Sabbadin. Subito dopo andammo via e subii una specie di blocco, nel senso che rifiutai di ritornare sull'argomento, di affrontarlo, di parlarne, perché fino a quel momento, in quell'ottica, purtroppo una persona da colpire non veniva valutata come un marito, un padre di famiglia e tutto il resto, ma rappresentava un simbolo. È una cosa che col tempo si comprende, che si è partecipato e si è causata la morte di un uomo, dalla quale non si può tornare indietro, non si può porvi rimedio, è irrimediabile». Dopo di allora l'assassino di Sabbadin ha precisato di non aver più preso parte «a riunioni politiche» dei Pac e di aver rifiutato di collaborare a un attentato contro un magistrato «perché non volevo più essere coinvolto in questo tipo di azioni». Ma ormai l'esecuzione del macellaio veneziano era stata compiuta, come ha sottolineato lui stesso: «Devo dire che la mia partecipazione... ossia, essere fonte diretta della morte di una persona mi ha causato non pochi dubbi e ripensamenti e dolore vero e proprio. Ho sempre teso a dimenticare questo episodio, a non parlarne con nessuno, a rimuoverlo all'interno di me stesso, anche se è una cosa impossibile. Vivere con un tal peso è molto, molto difficile». Anche per il «gran senso di vergogna», nei confronti dei familiari e pure dei compagni, «perché loro, a differenza di me, han praticato sì la lotta armata, però fermandosi sulla distruzione motivata delle cose, sugli incendi di auto e cose del genere».


LA RIVE GAUCHE
La 65enne Filippi, invece, non ha scontato un giorno della detenzione (24 anni in primo grado) a cui è stata condannata da latitante. La donna che guidava la Volkswagen Passat da cui Battisti e Giacomini scesero per entrare nella macelleria di Sabbadin («con baffi e barba posticci e i capelli raccolti sotto un berretto, era rimasta ad attenderli»), nel 1982 è fuggita in Francia, dove si è sposata con un noto traduttore ed è diventata cittadina francese, tanto che pure l'ultima richiesta di esecuzione della pena nel 1990 è stata negata dalle autorità di Parigi in virtù della dottrina Mitterrand. Lei stessa lavora nel settore delle traduzioni e almeno fino allo scorso anno risultava titolare di uno studio professionale in un palazzo in stile liberty sulla rive gauche, il quartiere intellettuale della capitale transalpina. Per il giudice istruttore Pietro Forno, «la Filippi si comportava da capo e dimostrava una freddezza che non aveva nemmeno il Battisti», mentre i suoi avvocati hanno sostenuto che «è sempre stata estranea ai Pac, non ha mai partecipato alle riunioni in cui i due attentati si decisero, non ha subìto dagli altri pentiti accuse diverse che di rapina». Rintracciato da Panorama dieci anni fa, suo figlio le aveva fatto muro intorno: «Mia madre mi ha assicurato che le accuse sono false. Ora non intende più parlarne, ha cancellato tutto. Vive nel futuro. La sua pena è l'esilio, quella pagina per noi è girata». Chissà se però quel capitolo è chiuso davvero, ora che il passato è tornato d'attualità con il rientro in Italia di Battisti.

 

Ultimo aggiornamento: 16 Gennaio, 09:09 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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