Italiano morto in Siria, il fratello preside di Lettere alla Sapienza: «Non era un estremista»

Mercoledì 9 Gennaio 2019 di Camilla Mozzetti
Giovanni Asperti
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«Per come era Giovanni posso soltanto credere che la sua scelta di unirsi ai militanti curdi sia dipesa da una rottura profonda nella sua vita che nulla ha a che vedere, però, con la politica, l’estremismo, l’ideologia». Con difficoltà cerca le parole, Stefano Asperti, preside della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’università Sapienza, per motivare, comprendere e spiegare il gesto del fratello Giovanni, il 53enne, morto in Siria settentrionale dopo essersi unito ai miliziani curdi che combattono l’Isis.

Siria, italiano muore combattendo per le milizie curde: il suo nome di battaglia era Hiwa Bosco
 



La notizia della sua scomparsa lo ha colto tra le aule imponenti e storiche della facoltà universitaria del primo Ateneo pubblico di Roma mentre, tra lezioni ed esami, da cinque mesi – da quando cioè il fratello ha abbandonato la famiglia e l’Italia per unirsi ai combattenti in Oriente – prova a decifrare quella decisione «incomprensibile». «Perché Giovanni – spiega il preside – era solo un uomo mite». Con lo sguardo reso più grande dagli occhiali da vista e la passione – incontenibile – per i libri di storia antica che divorava come fossero caramelle, mentre pensava ai suoi due figli adolescenti, di 13 e 14 anni, accompagnandoli a scuola o passando il tempo con loro a vedere le partite di calcio dei Mondiali. Così si mostrava, Giovanni, «Altro che armi e fanatismi». Lui che, con una laurea in Economia conseguita alla Bocconi, a malapena aveva visto nella sua vita un fucile da caccia e trascorreva i giorni in quel piccolo paese – Ponteranica – alle porte di Bergamo dove il Municipio aveva intitolato la piazza centrale al papà Pietro, medico e tra i fondatori del “Manifesto”. E invece Giovanni era diventato un altro uomo anche nel nome: in Siria, tra i miliziani, si faceva chiamare “Hiwa Bosco”, e suo fratello, che la scorsa estate lo ha salutato vedendolo per l’ultima volta con una maglietta di cotone addosso, lo ha ritrovato in foto con i capelli rasati e la tuta mimetica. 

Professor Asperti, se nei mesi scorsi nulla vi ha dato l’idea, a lei e ai suoi familiari, che qualcosa nell’animo di suo fratello fosse cambiato, è riuscito in questi giorni ad elaborare una spiegazione per quanto accaduto?
«No, mi interrogo su questo e non trovo risposte razionali. Dev’esserci senz’altro una motivazione, ma ritengo sia molto più profonda e privata di quanto si possa credere. Una scelta non legata in alcun modo alla politica o alle ideologie, di questo ne sono certo, ma derivante forse dalla necessità di ricomporre qualcosa che nel suo animo si era rotto». 

Quando ha capito che suo fratello si era unito in Siria ai militanti curdi che combattono l’estremismo islamico?
«Giovanni era venuto a trovarmi a Roma solo due settimane prima di partire per la Siria. Era metà luglio. Abbiamo passato del tempo insieme con i nostri figli, era felice o almeno, così sembrava. C’erano ancora i Mondiali di calcio, vedevamo insieme le partite. Sembrava tutto normale».

E poi invece?
«E poi ci ha detto che sarebbe partito per l’estero, non per la Siria ovviamente, perché la sua azienda, una società che collabora con l’Eni, gli aveva affidato un incarico. Negli ultimi tempi si era occupato di bonifica e dismissione degli impianti petroliferi e quindi era credibile un impegno fuori dall’Italia per motivi analoghi. Ci aveva detto che sarebbe partito a fine luglio e così poi ha fatto, ma per una destinazione che noi abbiamo scoperto solo molti giorni dopo».

In che modo?
«Mio fratello aveva predisposto delle lettere: una per ognuno dei suoi fratelli – siamo rimasti in tre – e una per sua moglie. Le abbiamo ricevute dopo qualche giorno».

Cosa c’era scritto in queste lettere?
«Che si lasciava alle spalle la sua vita precedente per inserirsi nelle milizie curde per combattere in Siria. Specificava poi di non voler tornare in Italia, si era licenziato dal lavoro. A noi fratelli ha mandato pressoché la stessa lettera, quella per sua moglie è diversa ma non ha esposto le ragioni e io da 5 mesi non faccio altro che andarle a cercare. Decisioni del genere non si prendono così, implicano dei motivi forti che mi rammarico di non aver capito».

Da allora avete perso ogni contatto, o comunque prima della sua morte, siete riusciti a parlarci?
«Nulla. Non abbiamo avuto più sue notizie. Per noi si è dileguato dietro una cortina di nebbia. Ad agosto è stata presentata una denuncia per scomparsa mentre io ho allertato l’unità di crisi della Farnesina. Nel corso dei mesi poi ci sono stati dei tentativi per cercare di localizzarlo e metterci in contatto con lui, in collaborazione con le autorità, ma non ci siamo mai riusciti. Quello che mi conforta, è sapere che alla polizia italiana risultava uno sconosciuto, che non fosse legato a gruppi estremisti noti».

Ritiene possibile che a Ponteranica dove viveva, suo fratello possa esser entrato in contatto con qualche gruppo o esponente dei miliziani curdi?
«Non lo posso escludere. È chiaro che qualche aggancio lo aveva creato. Ma le autorità non hanno trovato nulla né in casa né altrove. Secondo la polizia però la sua partenza era stata organizzata da tempo».

Come avete saputo che suo fratello era morto?
«Mi hanno contattato lo scorso giovedì alcuni rappresentanti curdi in Italia con un sms. Li ho incontrati allertando sia il ministero degli Esteri che le autorità. Mi hanno solo detto che mio fratello era morto il 7 dicembre scorso ma non in combattimento, tra l’altro nelle indagini finora compiute non è stata trovata una corrispondenza tra Giovanni e le azioni delle resistenze curde».

Quindi crede che la sua sia stata una morte accidentale?
«Sì, credo sia andata così. Per quel che ora so mio fratello è sepolto in Siria settentrionale, la salma verrà riesumata. Noi siamo in contatto con il consolato di Arbil in Iraq con il quale si opererà per il rientro in Italia della salma». 

 

Ultimo aggiornamento: 10 Gennaio, 18:19 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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