Andrea, volto delle fiction: «Volevo fare il pilota di aerei, ma ho scoperto il teatro»

Lunedì 3 Dicembre 2018 di Edoardo Pittalis
Andrea, volto delle fiction: «Volevo fare il pilota di aerei, ma ho scoperto il teatro»
La sua Vita promessa doveva essere quella di pilota dell'Alitalia, con tanto di brevetto per i voli commerciali; è diventata quella di un emigrato veneto a New York negli anni del Proibizionismo, ucciso dalla Mano Nera alla guida di un camion carico di cattivo whisky.
E il suo Paradiso delle signore non era tra le nuvole, ma in un grande magazzino nei panni di un ragioniere rassicurante. Andrea Pennacchi, padovano, 49 anni, ha trovato un'altra maniera di volare: quella di attore che gira il mondo tra televisione, cinema e teatro.

Una lunga gavetta partendo dall'università e calcando palcoscenici di provincia, poi la popolarità arrivata con la tv. Presto si vedrà in due nuove fiction Rai: sarà il vecchio maestro di Beppe Fiorello, l'operaio licenziato che ricompra la fabbrica e riassume i compagni di lavoro; e sarà l'anziano imbroglione che inganna Giuseppe Battiston vendendogli a Nordest un supermercato fallito.

Sempre parti da vecchio anche se deve ancora compiere 50 anni?
«Sarà che sembro più vecchio! Le accetto. In Arrivano i prof con Bisio ero il preside attempato. Anche nella storia vera che s'intitola Il mondo sulle spalle sono il vecchio della fabbrica accanto a Fiorello. Ma in fondo cosa c'è di più bello di un mestiere che invecchia e ringiovanisce a piacere?».

Andrea Pennacchi voleva fare l'attore?
«No, volevo fare il pilota, ho frequentato l'Istituto tecnico Aeronautico di Forlì e anche il corso Allievi Ufficiali di complemento. Avevo la convocazione per l'Alitalia, ma ho dovuto attendere il congedo da ufficiale, e quando ci sono arrivato era già iniziata la crisi della compagnia. A quel punto dovevo prendere il brevetto commerciale all'estero e, nel frattempo, mi sono iscritto all'università. Seguendo un amico, ho frequentato un corso al Centro Teatro Popolare di Ricerca ed è stato un colpo di fulmine, io che non ero quasi mai andato al teatro ho scoperto questo mondo che poteva appassionarmi e divertirmi. Ma a 24 anni ero troppo vecchio per iniziare una formazione teatrale, allora abbiamo invitato autori importanti a formarci: Peter Brook, Marco Baliani, Moni Ovadia».

Come era la Padova nella quale è cresciuto negli anni '70 e '80?
«Era una Padova un po' inquieta. Mio padre Valerio mi ha avuto a 40 anni, età che un tempo voleva dire essere genitori vecchi. Lui era stato un giovane partigiano comunista sopravvissuto al lager ed era rispettato per il suo passato. Quello che ricordo da bambino è il mio quartiere di Brusegan, i parenti, la scuola; fino alle medie era quello il mio orizzonte. Venire nelle Piazze a trovare i miei cugini era pazzesco, una volta alle elementari ho fatto un tema dicendo che al centro non c'erano gli alberi. Una città nella quale l'inquietudine politica la sentivi quando la sezione del Pci venne dedicata a Guido Rossa, il sindacalista ucciso dalle Brigate Rosse».

Quando ha scelto la professione dell'attore?
«L'università mi dava non soltanto il titolo e la cultura che mio padre che era tipografo voleva, ma anche soddisfaceva il mio grande amore per la storia e per il folklore. Forse potevo anche fare la carriera accademica, c'era una porticina aperta. Il teatro mi ha preso prima. ArteVen mi ha dato la possibilità di lezioni spettacolo nelle scuole su Shakespeare e gli aspetti veneti nella sua opera: è stata una palestra favolosa, impari a lavorare con un pubblico che non è gentile se lo spettacolo non gli piace, ma è generoso se gli piace».

Come si è affacciato al cinema?
«Andrea Segre stava preparando il suo primo film., ci conoscevamo perché avevamo fatto insieme il festival Itaca e unisce fare le notti per salvare i panini dai ratti che salgono dal fiume. Con Segre ho superato cinque provini, poi mi ha dato il ruolo del figlio del protagonista in Io sono Li. Ho lavorato di più con Mazzacurati che era un regista bravissimo, considero Il Toro un capolavoro di ironia, un road movie straordinario che dà punti a molti film americani. Quando ha girato l'ultimo film ho capito che Carlo era malato seriamente e che stava facendo il suo canto del cigno. In queste settimane sto girando a Sauris un piccolo film ambientato in un paese di montagna: arriva un giovane in programma di protezione testimoni perché ha assistito a un delitto di mafia.
Il tutto giocato sulla chiave comica senza perdere niente della tragicità. Siamo rimasti bloccati dalla tempesta che recentemente ha devastato la Carnia, gli alberi sembravano colpiti da bombe, strade inagibili, sbarre di ferro piegate, niente energia elettrica, telefoni isolati».

La popolarità è arrivata dalla televisione in prima serata su RaiUno: il marito per procura nello sceneggiato La vita promessa, il ragionier Galli nel Paradiso delle signore.
«Il regista Ricky Tognazzi era contento di avere un veneto e ha cambiato il mio ruolo, fino a farlo diventare quello di un emigrante veneto a New York; in origine era un siciliano. Il mio personaggio doveva essere non particolarmente gradevole, poi è venuto fuori quest'uomo un po' tenero e innamorato. Il successo dello sceneggiato è stato strepitoso: aveva la formula del vecchio dramma televisivo con una storia bella, solida, piena di pathos e una protagonista bravissima. La Ranieri oltre che bella è proprio brava. È stato anche faticoso, io pensavo di andare in America, gli esterni invece sono stati girati in Bulgaria nel freddo a meno sette! La serie del Paradiso delle signore era scritta benissimo e c'era un gruppo di attori giovani tutti bravi. Io venivo dal teatro che per quelli della tv è come una vecchia zia decaduta da trattare con rispetto».

Spesso in teatro si occupa dei veneti?
«Nello spettacolo Raise storte iniziavo sempre così: Volevamo spiegare i veneti ai non veneti, poi abbiamo capito che era meglio spiegare i veneti ai veneti. Amo molto questa terra, quando sono giù di morale vado sui Colli o a Venezia. Sono figlio e nipote di veneti dai due rami: dalle montagne di Asiago e dal bisnonno Pennacchi portato alla ruota al Portello. Con tutte le leggende familiari, come quella del ricco ebreo che aveva avuto una relazione con la cameriera e quella della garibaldina che aveva seguito le truppe. Un misto tra il veneto radicato nella terra e l'altro che viaggia e s'inventa storie. Oggi molti sembrano vivere come se non avessero queste radici».

Un monologo sui veneti circolato sul web ha registrato 3 milioni di contatti e molte polemiche.
«Non ci aspettavamo tutto questo successo sui social e anche le polemiche. Volevamo soltanto provocare un dibattito sul tema di una certa forma strisciante di razzismo. Io ho messo una maschera e ho scoperto che questa maschera faceva gridare di gioia alcuni, faceva piangere alle lacrime tanti, ne irritava altri. Speravo facesse discutere, ma dopo essersi fatta una sana risata: non tutti hanno riso. La gente non riesce a seguire un filmato di quattro minuti, anche se abbiamo superato i 3 milioni di contatti. Ho capito che eravamo nei guai quando ci ha fatto girare anche Selvaggia Lucarelli!».

Il nuovo spettacolo?
«Ci tengo molto a portare in giro Mio padre: un'odissea nella guerra civile anche se non sarà facile, il tema fa discutere, i partigiani non sono di moda. Lui ha raccontato pochissimo, molte cose le ho sapute dal compagno di prigionia che io ho sempre chiamato zio Celio. Il suo lager a vederlo sembrava quasi bello, a Ebensee in Austria - un sottocampo di Mauthausen - si scavavano tunnel per i missili intercontinentali con i quali Hitler pensava di vincere la guerra. Mio padre c'è stato rinchiuso a 17 anni, è sopravvissuto a cose terribili. E' stato congedato per meriti di guerra, col grado di sottotenente».
 
Ultimo aggiornamento: 4 Dicembre, 09:43 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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