Manuale di difesa/ Con la Ue si adotti il metodo Thatcher anche sui migranti

Venerdì 14 Settembre 2018 di Giuseppe Vegas
In un recente articolo sul Messaggero, Giulio Sapelli descriveva l’evidente squilibrio tra il contributo dell’Italia al bilancio europeo e i “ritorni” che ne ricava. Dati alla mano, l’economista dimostrava con efficacia quanto l’Europa sia inadempiente rispetto a suoi precisi obblighi - soprattutto in materia di migranti - nel mentre pretende dall’Italia il rispetto rigoroso delle regole. In tal modo prendeva le parti di chi minaccia un “autorisarcimento” per le vie brevi, attraverso la sospensione del contributo obbligatorio.

Pur non condividendo le modalità suggerite per motivi che spiegherò più avanti, il ragionamento proposto ha invece una logica pienamente condivisibile. Per di più supportata da un illustre precedente.
Nel 1984 Margaret Thatcher fece valere in un combattuto negoziato la posizione britannica nei confronti del bilancio dell’Unione. La Gran Bretagna sosteneva che il bilancio europeo era troppo orientato a favorire la politica agricola comune, settore nel quale Londra disponeva di scarsi interessi, a danno degli altri settori di intervento dell’Unione. Grazie a quel formidabile negoziato («I want my money back» esclamò con energia la “Lady di Ferro” nel momento più teso), da quell’anno in poi la Gran Bretagna ottenne la restituzione della parte del surplus che essa pagava, risultando quel Paese un contributore netto al bilancio comunitario.

Quello che da allora venne denominato “British rebate” é sopravvissuto fino ai giorni nostri, sia pure con una modesta riduzione, malgrado il fatto che gli stanziamenti per l’agricoltura siano stati consistentemente ridotti negli anni.
Esiste dunque un precedente inequivocabile circa la possibilità che uno Stato europeo possa essere sollevato dal pagamento di una spesa che non condivide. Certo si tratta di una procedura non indolore e non certo facile nel momento attuale, visto che lo schema di bilancio è già stato approvato dal Consiglio su linee precedentemente concordate. Ma mancano ancora tre mesi alla sua approvazione definitiva e non è irragionevole pensare che modifiche possano essere apportate.

Perché dunque non porre in termini analoghi, ancorché opposti a quelli britannici, il tema dei costi delle grandi migrazioni?
Se un Paese sopporta direttamente costi che in realtà riguardano la gestione di una politica comune, è ragionevole dedurre che questi costi debbano essere condivisi. Se ciò non avviene, trattenere dai propri versamenti alla Ue una somma equivalente ai costi sostenuti da quel Paese in nome e per conto degli altri - dedotta la parte di propria spettanza - dovrebbe essere considerato più che ragionevole, peraltro coerente con i precedenti comunitari.
Ovviamente, non si potrebbe trattenere tout court le somme in questione, ma occorrerebbe una decisione comunitaria. Una decisione che dovrebbe essere portata all’ordine del giorno nel dibattito europeo sul bilancio 2019 e sulle prospettive finanziarie 2020-2027.

Come detto, non è un percorso privo di difficoltà, ma è il solo che può portare ad un risultato concreto (se l’operazione non riesce nel 2019, si può riprovare nel 2020) senza incorrere nella facile obiezione che non pagare unilateralmente costituisce una violazione passibile di sanzioni. Tra l’altro, sottoporre il Paese al rischio di sanzioni potrebbe essere pericoloso per chi lo propone. Un domani qualcuno potrebbe svegliarsi e ritenere che per tale via si sarebbe procurato un danno erariale, con le sue inevitabili conseguenze.
Percorrere una simile strada aiuterebbe anche l’Europa a prendere coscienza dei problemi reali dei cittadini europei, che non sono solo la durata dell’ora legale.
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