Anoressia, l'appello di Eleonora: «Ero ridotta così, non abbiate paura: fatevi aiutare»

Domenica 26 Agosto 2018 di Nicola Munaro
Eleonora Lischetti ieri e oggi
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PADOVA - Adesso Eleonora sorride. Ieri la dietista le ha confermato che il suo Bmi (l’indice di massa corporea) è rientrato nei parametri giusti per fare sport. E così Eleonora può finalmente cercare una piscina, indossare cuffia e occhialini e lasciarsi alle spalle quel mostro chiamato anoressia. Lei, 18 anni di Feriole, con “la malattia” – come la chiama – ha dovuto conviverci per quattro anni in cui era arrivata a pesare 30 chili distribuiti su un corpo di un metro e sessantun centimetri.
VIAGGIO ALL’INFERNO
«Ero uno scheletro», racconta Eleonora Lischetti, senza tanti giri di parole. Che servono anche a poco per chi, come lei, vuole raccontare a tutti cos’ha vissuto. «Perché grazie alle cure dei medici, della mia famiglia e alla clinica Villa Margherita di Arcugnano, ne sono uscita. Adesso voglio vivere».
 
 Un viaggio per l’inferno, andata e ritorno. «Mi sono ammalata quattro anni fa quando avevo appena iniziato le superiori al liceo artistico Modigliani», sono le prime parole di Eleonora. «Tutto è iniziato perché non riuscivo a comunicare con gli altri, mi sentivo poco considerata dai miei amici, incompresa dai miei genitori. Mi ripetevo continuamente che se non piacevo agli altri era per colpa del mio fisico, mi vedevo grassa. Allora ho iniziato a non mangiare e a fare tantissimo sport e tante camminate per dimagrire, volevo attirare l’attenzione su di me. Così sono arrivata a pesare trenta chili sul finire dell’anno scorso. Non uscivo mai, accampavo tutte le scuse possibili per mangiare meno o per non mangiare. Dicevo ai miei genitori che stavo a scuola, poi scappavo in palestra, avevo anche un lavoretto. Quando prendevo il cibo in mano, lo buttavo nel water e mi concedevo uno yogurt al giorno. A volte anche solo mezzo. Negli ultimi mesi della malattia non riuscivo nemmeno a stare in piedi, passavo le giornate stesa a letto anche se volevo alzarmi in piedi per fare altra ginnastica: in testa avevo solo l’idea di perdere peso». Un loop, si direbbe nello slang di adesso. Un circolo infinito che ti spinge sempre più fino allo stremo. «Io volevo scendere ancora con i chili, il numero sulla bilancia deve essere sempre meno ogni giorno che passa. Quando ero trenta chili, avevo puntato i venti».
LA VERGOGNA
Poi, all’improvviso, il cortocircuito: la voglia di uscire, di vedersi bella allo specchio, di tornare a sorridere esplodono dentro di lei, riaggrappandola alla vita. «È successo poco prima dello scorso capodanno, dovevo andare a una festa con degli amici ma mi vergognavo del mio corpo e del mio aspetto fisico – ricorda Eleonora – Non ne volevo più sapere di non sforare le cinquanta calorie al giorno. Ho detto basta, ho scelto di diventare felice. Così sono andata da mia mamma e le ho chiesto di farmi ricoverare». Le prime visite, il tentativo di far pace con il cibo e, a fine marzo, il ricovero nella clinica privata Villa Margherita, ad Arcugnano, provincia di Vicenza. Un’esperienza non facile, ma una porta strettissima attraverso cui era necessario passare. «Sono entrata il 28 marzo e ne sono uscita il 2 luglio. Ho potuto rimanere tre mesi perché residente in Veneto – spiega - ma nonostante debba tutto a Villa Margherita, lì ho vissuto un sogno e un incubo. Quando sei ricoverato in strutture simili, sei sotto una cupola di vetro, vivi protetto, è vero, ma vivi con gente come te. Ho visto di tutto: ragazze che buttavano i piatti per terra, gente che si tagliava, e anche io ho fatto gesti di autolesionismo. Altre donne che facevano esercizi di nascosto o tagliuzzavano il cibo e lo polverizzavano per nasconderlo nelle scarpe, nel reggiseno o per aspirarlo con il naso in modo da ridare il piatto vuoto alle infermiere. Io stessa ho vissuto una forte ambivalenza tra il voler guarire e il restare malata: spezzettavo il cibo che nemmeno si vedeva, facevo 50 chilometri al giorno nel parco della clinica. Ho smesso quando mi sono resa conto che lì non ero solo un numero sulla bilancia. Ma i medici sono stati costretti a togliermi le scarpe per evitare che ogni giorno camminassi nel boschetto. Stavo impazzendo. Lì dentro ne ho sentite di tutti i colori, quando mangiavo venivo criticata dalle altre pazienti che mi dicevano “mangiavi troppo, ti vedo grossa”. Allora io non ascoltavo».
LA RISALITA
Ma è da quel fondo che è ripartita. «C’è sempre qualcuno che ti ascolta, basta saper chiedere aiuto, lo so che è difficile, l’ho provato sulla mia pelle, ma deve essere fatto – continua nella sua testimonianza – Quando facevamo le terapie di gruppo mi dicevano che non eravamo un numero su una bilancia, ma che eravamo le nostre passioni e il nostro carattere. Ecco, io lì ho capito che mi sono ammalata perché non riuscivo a esternare quello che provavo. Ho dato un nome e una spiegazione a ogni gesto: sminuzzare il cibo era sinonimo di rabbia, la mia lentezza nel fare ogni cosa era la paura di crescere e di diventare grande, il camminare continuamente con il contapassi sott’occhio era l’allontanarsi da tutti e dall’ansia che mi perseguitava. Ho dovuto smettere di voler controllare ogni cosa». A salvare Eleonora ci hanno pensato la sua forza di volontà e il supporto di chi le è stato vicino. «Ogni giorno che passava e quando facevo fatica pensavo alle mie passioni: al nuoto, al vivere al sogno di diventare psicologa per aiutare gli altri, al divertirmi con gli amici alle feste. Mi ha tenuto in piedi l’idea di quello che sarei diventata se avessi fatto un sacrificio. Ora mi voglio bene, sono io la mia stessa motivazione, prima mi odiavo». E con il mostro alle spalle Eleonora ora rivede con occhi diverso i mesi e gli anni passati, così come le reazioni di chi le è stato sempre al fianco. «Quando ho deciso di ricoverarmi mio padre ha avuto una crisi, mia madre invece è stata la mia roccia, la sentivo ogni giorno. Ho visto i miei genitori soffrire per me – ammette, abbassando il tono della voce – Li stavo mandando in crisi: litigavano sempre, mi facevano un sacco di domande, mi chiedevano perché mangiassi così poco». Istantanee da una vita che non c’è più. Ma che Eleonora non intende dimenticare. «Voglio raccontare la mia storia per dare speranza. Ho visto ragazze di 14 anni chiuse in clinica: è tremendo, a 14 anni bisogna fare le feste. Io sono fuori da questo mostro, mi sono messa io al primo posto. Ho provato tutto il dolore che doveva essere sentito. Ora la parola basta è la parola perfetta».
Nicola Munaro
Ultimo aggiornamento: 17:34 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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