«Il dialetto veneto è vivo e vegeto ma non chiamatelo lingua»

Domenica 10 Giugno 2018 di Adriano Favaro
Gianna Marcato
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Non esiste una lingua veneta. Lo ripete. E non teme che la accusino ancora di essere negazionista o la chiamino a casa minacciandola. Come fecero anni fa quella della Liga veneta dicendole: comportati bene, tu quelle cose non le deve dire perché i nostri si offendono. Battagliera ma calmissima Gianna Marcato, docente di dialettologia all'Università di Padova, ha lasciato l'insegnamento da poco ma continua la sua testimonianza onorando la memoria del suo insegnante Manlio Cortellazzo. Al primo docente di dialettologia nel Veneto - cattedra istituita nel 1967 la sua allieva dedica il convegno a Sappada, 3-7 luglio, omaggio ai cento anni dalla nascita. 

Giuro che non la minacceremo, ma il dialetto è cultura?
«Se per cultura intendiamo trasmissione orale allora il dialetto è una fetta grossa»
 
Cosa è cambiato dai tempi di Andrea Zanzotto e Dino Coltro?
«Il dialetto può considerarsi importante parte della cultura del Veneto purchè si capisca che - da un certo punto in poi - è andato di pari passo con l'italiano. Un mio vecchio contadino diceva: sia beo o no ma fora de casa l' omo se cambia de abito. È così con dialetto e italiano».

Dobbiamo sempre parlare di dialetti? 
«Solo a Mirano dove vivo ce ne sono due, quello dei contadini parlato a bocca aperta e della nobiltà di piazza, di bottegai, artigiani e commercianti che disprezza(vano) il parlato a cento metri di distanza, coesistendo podesto con poduo, savesto/savuo, piter/pitaro. Fuori del borgo storico i modelli padovani. Mirano centro si piccava di usare il modello veneziano perché nell'800 il centro borghese era veneziano e prima ancora c'erano i nobili con le loro ville che si muovevano da Venezia».

Dialetto bellezza od ostacolo? 
«Spesso è letto come pregiudizio e differenziazione. Il dialetto invece è elogio di diversità: diventa negativo se non si capisce quel valore».

L'insegnamento della dialettologia ha compiuto 50 anni 
Sì, ma adesso sta andando a remengo, sostituita da storia della lingua o grammatica. Io volevo laurearmi in greco antico. Poi trovo Cortellazzo e la sua passione trasmessa nelle lezioni su dialetti; uomo profondissimo, pieno di umanità. Uno di città però: spesso alzavo la mano e dicevo che in campagna parole e lingua erano differenti da come lui spiegava. Un giorno mi offre un caffè e mi dice: lavori con noi per dimostrare le sue idee».

Così
«Nasce la mia tesi: centinai di interviste ai miranesi da 80 a 16 anni di diversi strati sociali per capire come vivessero la dialettalità negli anni 70. Ma quando andavo a Mestre per dire ragazzo usavo toso e non fio, parlavo come un boaro, un contadino.

Com'è investigare nel dialetto?
«Mi dicevano di sì e all'appuntamento non aprivano e stavano dietro porte e finestre. Il dialetto è intimità, non è facile mostrarlo. Mi aiutavano intermediatori del paese. E quella volta che ho cominciato, allora signor Buso mi dica... Quello reagisce. Non avevo capito che nane buso era un soprannome da paese, ridanciano; che gaffe».

La tesi passa e quei materiali
«Li pubblica il comune di Mirano. A rivederli si potrebbe dire che una volta gli extracomunitari erano i contadini».

Con questo bagaglio porte aperte all'Università?
«Macchè, volevo insegnare, faccio domanda e dimenticando una firma mi assegnano un posto a Burano dove il preside dice: si trovi una stanza qui. Cambio idea in un giorno e ritorno da Cortellazzo. Professore mi vuole ancora?».

Diventa una delle dialettologhe più note: la lezione di Cortellazzo?
«Quella di una bellezza che non siamo riusciti a coltivare forse per questioni accademiche. Aveva un'enorme apertura, una tecnica favolosa nel capire e spiegare qualsiasi forma del dialetto; e come servisse studiare letteratura, teatro e commedia e lingue del 500 che capire quanto composita la società di quel momento».

È Cortellazzo a organizzare l'Atlante Linguistico Mediterraneo con la Fondazione Giorgio Cini
L'impresa geolinguistica forse più ambiziosa della seconda metà 900 e forse anche il caso più clamoroso della dialettologia europea degli ultimi decenni. Parteciparono alcuni dei maggiori linguisti europei di quegli anni».

Da tempo il dialetto è una clava usata dalla politica. 
«In nome del dialetto ci sono state troppe finzioni: in pochi hanno voglia di dire questo. Anche il bellunese Giovanni Battista Pellegrini (morto nel 2007) studioso del ladino fu offeso a lungo. C'è chi usa i dialetti come bandiere invece di guardarne la dimensione umana; o come steccato; o spesso per avere soldi, poi usati male». 

Invece è permeabilità
«Leggevo sul Gazzettino le contestazione alle prove Invalsi perché un insegnate ha fatto scrivere qualcosa in dialetto e non in lingua veneta. Lingua veneta? Roba inventata, al di fuori di ogni altro senso, non esiste e lo ripeto».

La continuano a sfidare, vero?
«Di recente anche Franco Rocchetta, una tenzone pubblica sul vostro giornale, voleva. Andatevi a leggere i miei studi ho risposto. Ci sono tutti gli atti di Sappada pubblicati che mostrano cosa siano i dialetti, non solo nel Veneto ma in tutta Europa».

C'è qualcosa che col dialetto non si può fare?
«Rispondo con un maestro contadino. Diceva: sa siora che col nostro dialetto se capimo e parlemo di tutto anche della Camera di Roma. In sostanza: se gli altri non voglio capirci è altra questione».

Il dialetto è impoverito?
«No è vivissimo e cambia sempre. Se in passato non si faceva sentire (e anzi è stato soffocato per alcune generazioni) è perché certe classi sociali avevano solo il silenzio e non potevano parlare, come l'inglese per gli anziani adesso. Anch'io parlo il dialetto solo con alcuni amici: ogni lingua ha il suo posto».
Ultimo aggiornamento: 11 Giugno, 15:34 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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