I passi falsi di Hamas e Israele per la pace che nessuno vuole

Martedì 15 Maggio 2018 di Fabio Nicolucci
Sulla tolda del Titanic l’orchestra suonava spensierata mentre la nave correva contro un enorme iceberg. Così, ieri, a Gerusalemme. Il governo di Netanyahu e i rappresentanti dell’Amministrazione Trump festeggiavano lo spostamento dell’ambasciata Usa a Gerusalemme, mentre a Gaza venivano uccisi svariate decine di palestinesi. Ed anche se era pieno giorno, sembrava buio. Perché, come ha scritto il premio Nobel israeliano Elie Wiesel, «la guerra è come la notte, copre tutto». 

La giornata di ieri in Israele e Palestina è stata una delle più tristi di questo oramai pluridecennale conflitto tra i due popoli. Non perché la più sanguinosa, anche se sanguinosa è stata. Ma perché mai forse come ieri è apparso evidente come le ragioni della pace siano, se non estinte, certo in profondissima crisi. E come di conseguenza il percorso verso la fine condivisa e duratura del conflitto sia oramai ostruito. E come la capacità di scorgere il suo percorso sia del tutto assente, avvolta in una notte della ragione e della razionalità. 
Se ciò avviene, è grazie al colpevole concorso di quasi tutti gli attori. Perché troppo pochi sono coloro che leggono correttamente la rotta, si accorgono che ci si avvia a schiantarsi in una guerra infinita, e dunque sono attrezzati per proporne una alternativa. La tristezza della giornata di ieri è dovuta al fatto che purtroppo continuano ad ingrossarsi le fila dei ciechi, e ad assottigliarsi quelle dei vedenti.

Tra gli ultimi arrivati nella landa dei ciechi vi è da annoverare il presidente americano Donald Trump, la cui decisione unilaterale di spostare la propria ambasciata a Gerusalemme ha prodotto ieri una cerimonia che poteva essere la “festa delle feste” se tenuta come suggello di un accordo di pace con i palestinesi, ed invece è stata un palcoscenico per pochi assediato dagli eventi, soffocato da un tendone. Un amaro e significativo contrasto con la ariosa cerimonia voluta nel 1994 da Bill Clinton per festeggiare la pace tra Israele e Giordania, tenutasi invece all’aperto con il solo sfondo di un deserto senza più confini invalicabili. Ed è infatti proprio lo sfondo politico a fare la differenza, perché se questo passo, ancorché non condiviso, fosse stato accompagnato da una pari attenzione ai palestinesi, magari con la promessa di fare lo stesso con loro a Gerusalemme Est, non sarebbe stata altra benzina sul fuoco. Questo non è stato. 

Se Trump ha scelto così è anche perché in fondo condivide la visione di Netanyahu di uno status quo sul brevissimo termine ritenuto favorevole ad Israele, e di uno scontro di civiltà con l’Iran, visto come unica sorgente di tutti i problemi di equilibrio di potenza del Medioriente. Una lettura che propugna dunque il mantenimento dello status quo con i palestinesi – di cui lo spostamento dell’ambasciata cosi fatto è suggello - destinati ad un eterno limbo, e uno scontro infinito ed esistenziale con l’Iran, con cui di conseguenza è inutile fare accordi di alcun tipo. Netanyahu è maestro e ideologo da 30 anni di questa lettura, che politicamente ha fatto la sua fortuna. Anche se costituisce – come non si stancano di ripetere dal 1996 i professionisti degli apparati di sicurezza, che convinsero pure Sharon ad abbandonare Gaza – un rischio a lungo termine, data l’esplosiva demografia palestinese e araba, per uno Stato d’Israele che voglia rimanere come oggi al contempo democratico ed ebraico. 

Ma tra i ciechi, o forse meglio tra i sordi alle istanze più vere del loro stesso popolo, vi da annoverare anche Hamas e la dirigenza palestinese. Hamas in primis, perché racconta specularmente a Netanyahu una storia di eterna contrapposizione ad uno Stato d’Israele che si racconta come transeunte sulla carta geografica. Perché questo significa organizzare manifestazioni al confine con quello Stato: un invito a considerare quel confine come destinato ad esser travolto. Al momento con il cinico sacrificio di una generazione di giovani palestinesi. 
Vi è poi il concorso della dirigenza più moderata di Fatah, non tanto per la narrativa irreale quanto per l’incapacità di disegnare percorsi più realistici di un ricorso alla velleitaria via - notoriamente vaga – del diritto internazionale. Con l’appello all’Onu come fosse ciò che tutti talvolta sognano, e cioè un governo mondiale, e non – come è – un insieme di Stati che si associano su vaghe indicazioni morali e ben più concrete indicazioni di interessi. 

Tra i ciechi, o quanto meno tra i muti, vi è poi l’Europa. Incapace di uscire dalla pigra giaculatoria di un processo di pace che è morto con Rabin, perché incapace di capire Israele. Tale incomprensione è a destra come a sinistra. A destra, che oggi vede Israele solo come partner in una deriva di lotta islamofoba. A sinistra, dove da decenni non si capiscono le ansie della sua insicurezza tanto da leggerlo solo con falsi stereotipi. Come Stato dell’apartheid, quando è il contrario. Oppure come se i suoi servizi di sicurezza fossero un problema per la pace, quando essi ne sono l’ultimo baluardo, perché nati – al contrario che in Europa - con uno Stato fondato dai laburisti. 

Troppo poche, in questo desolante panorama, sono dunque le voci capaci di ragionare di pace. Una sinistra israeliana in minoranza, qualche dirigente di al Fatah, l’ebraismo americano, i dirigenti dei servizi di sicurezza e dell’esercito israeliano, e gli intellettuali come Grossman. Troppo poco, nel tuonar di armi. E così, nella notte, l’iceberg si avvicina. 
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