“Parlate male di me ma parlate”: l’aforisma wildiano super abusato nell’ “arte” della comunicazione del nostro tempo , passato attraverso le diverse connotazioni della volgarità della quale si compone, è diventato esortazione ineludibile, principio e obbiettivo di campagne di promozione riferite a qualsivoglia oggetto da “vendere” facendo leva - nel timore (o nella certezza!) che non si tratti di qualità così esplosive da bloccare l’interesse e l’attenzione dell’interlocutore - sullo stupore di chi ascolta o guarda il sullodato. Spesso, ma sempre più spesso, non si tratta di un oggetto ma della persona che si propone nelle fogge più stravaganti per accendere la curiosità altrui, per stupire, per sconcertare, meglio se per scandalizzare in modo che l’attenzione sia assicurata. Gli eccentrici sono sempre esistiti ma la risposta del pubblico alle ostentazioni in eccesso sapeva valutare e dare l’importanza che meritava a una comunicazione che facesse leva volgarmente - in quanto furbescamente - su un trucco di trasmissione per garantirsi visibilità. Che questa sfociasse in approvazione o disapprovazione è diventato via via con il passare di questi anni curiosi che vogliono allontanarci dalla “qualità” , sempre meno interessante. L’obbiettivo ultimo, il fine di questo tipo di comunicazione oggi molto spesso coincide con il proposito di Dorian Gray citato che trova nella moda il complice ideale, quando addirittura non diventa la didascalia di un messaggio di moda.
Non si sono sottratti neanche gli stilisti a questo imput : si è parlato molto della collezione Gucci per l’ambientazione osèe che lo stilista Alessandro Michele ha dato facendo sfilare gli abiti in una immaginaria sala operatoria fino a mandare in passerella alcuni modelli di ispirazione genderless ( com’è oggi nel glossario di questa griffe) con la propria testa riprodotta al naturale assoluto dal laboratorio che produce gli effetti speciali per Cinecittà: mozzata e portata sottobraccio. Riferimenti facili all’Isis? A una filosofia d’accatto che riveli il disagio, o l’incertezza di identità che in questo tempo mina la costruzione di caratteri definiti ? Denuncia “coraggiosa” di uno stato di malessere che la moda sente il dovere di comunicare? Escamotage furbesco alla Wilde per far parlare sicuramente di sé?
Resterà negli appunti di chi commenta la moda lo sguardo basito di Giorgio Armani rivolto a questo giovane dissacratore, Alessandro Michele: lui, Armani, che ha tenuto e tiene in pugno la moda con fermezza e onestà stilistica, con il coraggio di chi sfida la comunicazione con la qualità , con il dono infinito dell’armonia che è la sostanza della bellezza, commenta la cosa quasi più addolorato che indignato. Lo show di Gucci ha fatto centro nel senso che si è assicurato lo “stupore”: c’è anche però lo stupore allarmato di chi nella spettacolarità estrema di una “disarmonia” calcolata, nello stravolgimento di generi, nel caos rappresentato con disinvoltura dissacrante , legge un dèjà vu storico , la copia modesta dell’inno alla dissacrazione globale che pervenne alla storia nel Novecento con il movimento Futurista. Il para-revival marinettiano qual è stato la sfilata in “sala operatoria” di Alessandro Michele, si rivela la brutta copia di esternazioni datate un secolo fa negli anni del caos che precedettero indirizzi funesti per l’Italia: …”vogliamo cantare la temerità, l’audacia, la ribellione, il movimento aggressivo, il passo di corsa, l’insonnia febbrile, il salto mortale, lo schiaffo, il pugno…uccidiamo il chiaro di luna”.
Ultimo aggiornamento: 01:17 © RIPRODUZIONE RISERVATA
MODI E MODA di
Luciana Boccardi