Adriano De Grandis
OGGETTI DI SCHERMO di
Adriano De Grandis

Happy end, la decomposizione del Potere

Sabato 2 Dicembre 2017

Michael Haneke passa spesso per un regista intenzionalmente crudele. Chi non lo ama gli imputa un modo accuratamente spietato nel descrivere le azioni dei suoi personaggi, prigionieri di una narrazione provocatoriamente sgradevole e senza via di scampo. In realtà il regista austriaco, vincitore tra l’altro di due Palme d’oro (“Il nastro bianco” 2009, “Amour” 2012), dispiega puntualmente il suo pensiero fortemente cinico e disilluso su una società borghese moralmente degradata, in cui ogni “funny game” rappresenta lo snodo cruciale di rapporti e situazioni spesso aberranti e dalle conseguenze nefaste. E anche quando l’aggressività è perfino a scopo di bene, come nel precedente “Amour”, lo fa con quella gelida e cerebrale radicalità che annienta qualsiasi empatia con i personaggi e la storia, a dimostrazione di un’umanità ormai priva di qualsiasi reale pietà, se non dando comunque la morte. Ma non esiste un sadismo dello sguardo, come invece è avvertibile in un Lanthimos e in quella generazioni di cineasti greci, dove il Male è vissuto sempre attraverso un’ostentata, gratuita volontà di scioccare e irritare lo spettatore.
“Happy end”, dal titolo indubbiamente antifrastico, è dunque l’inevitabile, ennesimo scandaglio sulla voracità del mondo e sul senso distorto del proprio godimento. Ideale sequel di “Amour”, un indizio che diventa lampante durante un ricordo di nonno Trintignant, è l’ulteriore dimostrazione del disfacimento totale, morale e perfino economico, della borghesia, incapace perfino di darsi il colpo di grazia. Siamo a Calais, nevralgica stazione di flusso migratorio, all’interno di una famiglia altolocata, il cui padre è il fondatore di un’azienda, adesso nelle mani della figlia e di un nipote. Un incidente sul lavoro innesca un ingranaggio perverso, dove le già le esistenti personali dinamiche critiche all’interno del nucleo familiare portano l’apparenza del benessere a distruggersi senza alcun controllo, nel totale disinteresse per il mondo in difficoltà che si muove attorno.
Haneke è probabilmente oggi il regista che meglio sa raccontare e descrivere il peso della vita, l’insofferenza più pessimistica, dove le vecchie generazioni non ne possono più di vivere e quelle nuove sono ancora più insensibili e vigliacche, come dimostra il comportamento della bambina, gravemente già compromessa sul piano morale. Sorretto da un cast fantastico, dalla fedele Huppert al già citato Trintignant, passando per Toby Jones e Mathieu Kassovitz, “Happy end” a una visione superficiale e sbrigativa può apparire giustamente meno potente dei film precedenti, non avendo un momento fulminante, a parte forse il finale, ma tutto è vissuto in costante sottotraccia, dove il Male non esplode ma divora pian piano ogni certezza: la decomposizione del potere è un ballo lento e perverso

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