Le terrasses lascia il segno,
apprezzato remake de Gli spietati

Sabato 7 Settembre 2013 di Adriano De Grandis
Il regista algerino Allouache
VENEZIA - Concorso chiuso: anche l’ultimo film passato e adesso il lavoro (ingrato) tutto per la giuria. Last but not least, come dicono gli inglesi: ultimo, ma non per questo non importante. E infatti "Les terrasses" (Le terrazze) del franco-algerino Merzak Allouache d un pi che dignitoso tocco finale alla gara.



Siamo ad Algeri, vista dalle sue terrazze, quindi dall’alto, lontana e quindi anche magnifica, col suo mare, la sua vita che scorre scandita dalle cinque preghiere giornaliere. Ventiquattr’ore di una città che resta distante, ma che riassume in questi spazi elevati quello che brulica sotto, dove la bellezza del paesaggio cartolinesco si contamina in modo brutale, tragico, irrimediabile.



Storie che si sfiorano: una vecchia anziana con nipote e il suo figlio illegittimo non vuole essere sfrattata; un uomo è torturato da un boss perché si rifiuta di firmare un documento; un gruppo di giovani musicisti stanno provando i loro brani; una ragazza lesbica cerca di trasmettere il suo amore alla coetanea della band, nella terrazza di fronte; un uomo è rinchiuso in una gabbia per motivi misteriosi (probabilmente una metafora dell’Algeria, visto che l’uomo, all’occasione, rinuncia a liberarsi); una troupe televisiva sale all’ultimo piano di un edificio abbandonato per un reportage; una sposa chiede aiuto perché non riesce a dare piacere sessuale al marito.



Allouache curiosamente costruisce una struttura simile a "Sacro GRA", con le strade e i panorami ripresi in distanza, intervellandoli con un microcosmo che serve a identificare una realtà complessa e controversa, apparentemente chiusa in una società dominata dalle leggi religiose, ma lanciata in un’incontrollata, ipocrita tendenza a negarle, trasformandosi in aguzzini, assassini, spacciatori di droga, donne facili, con codici di crudeltà impietosa. Come Rosi, probabilmente anche Allouache paga il dazio di costruire storie accentuate (anche se qui non c’è la volontà di regolarle sul gusto di un pubblico), ma sa rovistare dentro le pieghe e le piaghe di un’umanità senza scrupoli. Con alcune sequenze molto belle, come la tragedia della ragazza lesbica e qualche attimo di improvvisa ilarità (la scena del poliziotto in pensione). Un film che si fa apprezzare per l’occhio investigativo e la volontà di denuncia.



Non sarà commovente, come chiede il regista avellinese, ma "Che strano chiamarsi Federico. Scola racconta Fellini" (fuori concorso) è l’amarcord che sicuramente il Maestro riminese avrebbe gradito. Una sorta di album di ricordi, sfogliato dall’amico Ettore, in un sorta di combinato tra finzione (con i nipoti di Scola, nei vari personaggi) e reperti, compresi provini esilaranti e tocchi di magnetica nostalgia, per un regista, morto 20 anni fa, e un’epoca che non ci sono più. Non un’agiografia, bensì una carrellata anche ironica e divertente, che trasmette tutta la carica dei giovani artisti di allora, usciti dal fascismo e dalle stanze del "Marc’Aurelio", destinati a segnare il destino dell’Italia cinematografica del dopoguerra.



Sempre fuori concorso dal Giappone è arrivato il remake de "Gli spietati", capolavoro di Clint Eastwood, firmato dal pluripremiato Lee Sang-il e interpretato da Ken Watanabe. "Yurusarezarumono" (Unforgiven) è un film godibile, che all’inizio segue le piste dell’originale (lo sfregio, la taglia), ma poi preferisce allontanarsi, tra paesaggi solenni e puntuali duelli, in un respiro tardo-eroico, dove forse il cattivo è l’elemento più debole del racconto.
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