La disabilità non è una malattia: ecco
verità e menzogne per evitare luoghi comuni

Venerdì 4 Marzo 2011 di Erica Bertucci e Massimo Zamuner *
L'ingresso dell'Arep di Villorba
TREVISO - Nel quotidiano intento di ridurre la complessit del mondo che ci circonda per semplificarci la vita, andiamo costruendoci delle idee a mo’ di sentieri, che ci conducono intorno alla montagna senza attraversarla per intero. Idee e sentieri che possono diventare delle “trappole della mente” tutte le volte che ci convinciamo che la montagna “sia tutta lì”: esse limitano le nostre potenzialità “di cammino” e restringono i confini della realtà svuotandola della sua ricchezza. Ecco alcuni esempi di viottoli mentali che ci portano lontano dai punti in cui si possono ammirare gli ampi panorami dell’umano.





Primo: disabilità è sinonimo di malattia. Falso



Pensate che l’ambiente naturale della persona “disabile” sia un luogo di cura? Nulla di più fuorviante. Avere una disabilità non significa essere malati. Secondo la definizione di disabilità che viene data dall’Icf (Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute), essa rappresenta la “conseguenza o il risultato di una complessa relazione tra la condizione di salute di un individuo e i fattori personali e ambientali” che interessano la persona. La stessa patologia produce effetti disabilitanti diversi a seconda della persona e del contesto su cui agisce. Viceversa, intesa come condizione di chi possiede una menomazione che riduce la capacità di interazione con l’ambiente (e vive dunque uno svantaggio nelle possibilità di partecipazione alla vita comunitaria), la disabilità rappresenta una sfida sociale ancor prima che medica.



A cadere nel tranello “disabile=malato” sono a volte le stesse persone “disabili”, che sentono il loro mondo affettivo e relazionale restringersi a dismisura: esse descrivono la loro condizione come una gabbia, una prigione, un vicolo cieco. Cercano via d’uscita in una medicina che annulli la menomazione, quando è il sentirsi malati la sbarra che trattiene. La persona “disabile” (qualsiasi persona) è portatrice di un bisogno (un diritto) di salute: il bisogno/diritto di vedere tutelata la possibilità di giungere alla migliore espressione di sé e delle proprie potenzialità. Lo psicologo “liberatutti” favorisce l’esplorazione dei bisogni, desideri e aspettative, supporta l’esame di realtà, promuove l’attivarsi di risorse personali e il riemergere della creatività, perché la disabilità possa rappresentare esperienza di vita e patrimonio della persona e della comunità.



Considerare la disabilità come un'esperienza di vita che va compresa, attraversata, condivisa nel suo potenziale evolutivo e vitale rappresenta una sfida per le persone che si confrontano con la sofferenza e le limitazioni che essa comporta e per la comunità nel suo insieme. Nella disabilità, infatti, la persona e chi la circonda, la comunità stessa, si confronta con quel senso del limite che sé solo restituisce valore alle potenzialità dell’essere umano. La disabilità costituisce patrimonio comune, più che problema dell’individuo.





Secondo: salute è sinonimo di assenza di malattia. Falso



L’Organizzazione Mondiale della Sanità definisce la salute “uno stato di completo benessere fisico, psichico e sociale e non semplice assenza dello stato di malattia o di infermità”. Ciò significa che dal corpo malato si è passati a considerare la persona nella sua complessità, ovvero nelle sue dimensioni “biologica”, “psicologica” e “sociale” (approccio bio-psico-sociale). Anche la persona “disabile” può scordarlo e concentrare tutti i suoi sforzi nel tentativo di eliminare la menomazione, a costo di perderne in “capitale di benessere”.



Lo psicologo “liberatutti” affianca il medico nel “prendersi cura” della persona perseguendo insieme l’obiettivo complesso del miglioramento della “qualità della vita” piuttosto che la sola guarigione da un sintomo. Ancor più, abbraccia col suo sguardo il “sistema” che “emerge” dalla disabilità: nel confrontarsi con una patologia si attiva infatti attorno al “malato” una rete di relazioni: coniuge, figli, genitori, familiari, operatori sociali, ciascuno entra in relazione con la persona con ruoli e funzioni diversi ed è portatore di un bagaglio di risorse e bisogni che, proprio sulla scorta dell’approccio bio-psico-sociale, va considerato e messo a frutto.



Quando la moglie sovraccarica di responsabilità e avvezza all’oblio dei propri bisogni accompagna il marito alle terapie, lo psicologo “liberatutti” può aiutarla a ricordarsi di sé e a recuperare il senso del proprio valore e della propria dignità, promuovendo dunque non la cura del malato ma la salute di ciascuno degli attori in gioco.





Terzo: chi ha una disabilità ha bisogno di uno psicologo! Falso... Vero... Boh...



L’incontro con una patologia anche grave o il convivere con una limitazione importante non rappresentano condizioni che richiedano necessariamente un intervento psicologico. La persona può sperimentare uno stato di intensa sofferenza con manifestazioni che potrebbero far pensare ad un disagio psicologico profondo: ciò che aiuterà a discriminare saranno l’intensità e la durata del dolore.



Quando si affronta la “perdita” di una parte importante di sé (una menomazione fisica, la limitazione dell’autonomia, il cambiamento nell’immagine di sé, nell’identità professionale, ecc.), la persona attraversa delle fasi simili a quando muore una persona cara: si tratta di “elaborare un lutto”. Nella disabilità è rappresentato dal processo di adattamento e accettazione della menomazione, che consiste nel progressivo accogliere la perdita di funzionalità nei suoi aspetti concreti (necessità di ausili, strategie di compensazione, ecc.) per giungere ad una riorganizzazione della propria identità che integri la menomazione nell’immagine di sé. Si tratta di un processo “naturale” che non richiede un intervento professionale.



Il percorso può tuttavia incorrere in blocchi, rallentamenti, vicoli ciechi: in questi casi lo psicologo “liberatutti” potrà intervenire per favorire la ripresa del cammino o fornire un aiuto specializzato. Ad un livello profondo, ciò che verrà sollecitato da un lavoro sul versante psicologico sarà la capacità spiccatamente umana di “resilienza”, ovvero in un certo modo l’attitudine a trasformare il “danno” in “dono”.





* psicologa e direttore sanitario di Arep Onlus





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Ultimo aggiornamento: 18 Marzo, 16:14 © RIPRODUZIONE RISERVATA