Papa Francesco ad Auschwitz, preghiere e commozione: «Signore, perdona tanta crudeltà»

Venerdì 29 Luglio 2016 di Franca Giansoldati
Papa Francesco ad Auschwitz, preghiere e commozione: «Signore, perdona tanta crudeltà»
19

Auschwitz-Birkenau - La macchinetta elettrica segue lenta il percorso dei binari della ferrovia.

Binari arrugginiti e vecchi ma ancora integri. Destinazione finale Birkenau, il campo di sterminio, la fabbrica della morte dove hanno perso la vita un milione e mezzo di persone. Papa Francesco scende dalla vettura, attraversa a piedi la lugubre scritta del cancello: “Arbeit macht frei”, il lavoro rende liberi. Poi riprende il cammino.
 
 


Accende una candela davanti alle lapidi, bacia il palo di ferro delle impiccagioni, tocca con la mano il muro delle esecuzioni poi scende le scale, nel blocco numero 11, per andare a pregare da solo nella cella di San Massimiliano Kolbe. Su una parete del muro è ancora visibile un graffito, una croce. La luce arriva da una grata in alto, piccola e angusta. In tutto dodici quadratini di cielo a scacchi. Il silenzio del Papa davanti alla fabbrica della morte è come un tuono. Nessuna parola, nessun discorso, nessuna preghiera al microfono. Il silenzio ha avvolto, per sua scelta, questo pellegrinaggio che, negli anni passati, hanno compiuto anche Papa Wojtyla nel 1979 e Papa Ratzinger nel 2005. Tornando dall'Armenia, il mese scorso, sull'aereo ai giornalisti aveva detto che anche ad Auschwitz-Birkenau avrebbe fatto la stessa cosa rispettata nel memoriale del genocidio armeno: il silenzio. “Non voglio nessuno, desidero non parlare ma pregare e spero che Dio mi dia il dono delle lacrime”. E così è stato.

Il Papa ha osservato diversi momenti di raccoglimento. Volto teso, mani serrate in grembo, capo chino e la postura quasi ingobbita, come se sulle sue spalle vi fosse il peso di Atlante. In tutto la visita è durata un'oretta, comprensiva di baciamano concesso (unico strappo) alla premier ultra cattolica Beata Zdilo, e i saluti a due gruppi, quello dei Giusti, cioè coloro che durante la guerra nascosero ebrei salvandoli dalla morte e dalla deportazione, e quello dei sopravvissuti. A loro ha regalato abbracci e ascolto. Venticinque in tutto, in fila. Capelli bianchi, alcuni con il bastone per camminare, occhiali da vista, volti rugosi. Tutti con il braccio tatuato da un numero. Il privilegio dei sopravvissuti è di poter raccontare le proprie storie. C'erano Helena Dunicz Niwinska, nata nel 1915, a Vienna, numero di campo 64118. Una violinista polacca, traduttrice di letteratura della musica classica. Fu deportata ad Auschwitz ma fu fortunata perchè come violinista divenne membro dell’orchestra nel campo. Sua madre morì due mesi dopo, nel dicembre 1943. Nel 2013 è stato pubblicato il suo libro “Una delle ragazze nella banda”.

Un altro sopravvissuto si chiama Alojzy Fros, nato nel 1916 a Rybnik, numero di campo 136223. Venne arrestato nell’aprile 1943 come cospiratore, fu deportato il 9 agosto 1943. Durante i primi due mesi è stato ricoverato nell’ospedale del campo come malato. Poi fu impiegato per ordinare i pacchetti dei prigionieri. Durante l’autunno del 1944 fu trasferito a Buchenwald. Anche lui, nel 2015 ha voluto pubblicare un libro di memorie dal titolo: “La mia storia”. Poi Janina Iwanska, nata nel 1916 a Varsavia, il professor Waclaw Dlugoborski, arrestato nel maggio 1943 a Varsavia per attività cospiratrici. Fu impiegato nell’ospedale del campo di Birkenau fino al gennaio 1945. Durante un trasporto per una evacuazione riuscì a fuggire dal campo. Dopo iniziò a lavorare come ricercatore universitario e curatore del Museo di Auschwitz-Birkenau. Lui racconta che la memoria è la cosa più preziosa da trasmettere ai giovani.

Ultimo aggiornamento: 30 Luglio, 12:56 © RIPRODUZIONE RISERVATA

PIEMME

CONCESSIONARIA DI PUBBLICITÁ

www.piemmemedia.it
Per la pubblicità su questo sito, contattaci