Molly Russell, social come Instagram e Pinterest tra le cause del suicidio della 14enne: sentenza storica in Gran Bretagna

La giovane nel 2017 si è tolta la vita dopo aver visto in rete migliaia di post su suicidio, depressione e autolesionismo

Sabato 1 Ottobre 2022 di Simona Antonucci
Molly Russell, social come Instagram e Pinterest tra le cause del suicidio della 14enne: sentenza storica in Gran Bretagna

Sentenza storica nel Regno Unito: i contenuti di Instagram e altri social sono stati considerati responsabili del suicidio di una 14enne.

Il coroner Andrew Walker (una figura simile a quella del medico legale) ha scritto che i messaggi di social media come Instagram e Pinterest sono tra le cause della morte di Molly Russell, ragazza che nel 2017 si è tolta la vita a 14 anni dopo aver visto in rete migliaia di post su suicidio, depressione e autolesionismo. Un report che potrebbe portare a nuove regole per i social media che garantiscano maggiore sicurezza.

 2.100 post

In sei mesi, Molly, ha salvato, messo like o condiviso 2.100 post che parlavano di sudicio, depressione e autolesionismo. Per soltanto 12 giorni, in quello stesso lasso di tempo, non ha interagito con materiale di quel tipo. Poi, si è tolta la vita: un episodio che ha sconvolto il Regno Unito. Oggi, proprio dalla Gran Bretagna, arriva un report storico, che riconosce i contenuti social tra le cause della sua morte.

Principe di Galles

«È probabile che quel materiale abbia influito negativamente sulla sua salute mentale», scrive il coroner Andrew Walker, «e che il suicidio sia stato “un atto di autolesionismo” di Molly che “soffriva di depressione e degli effetti negativi dei contenuti online». Sulla vicenda è intervenuto anche William, il Principe di Galles: «La sicurezza online per i nostri bambini e ragazzi deve essere un prerequisito, non un aspetto secondario», ha scritto su Twitter l’erede al trono, «Nessun genitore al mondo dovrebbe mai sopportare ciò che ha passato la famiglia Russell». Tra l’altro, nel 2019, il principe incontrò Ian Russell, il padre di Molly, che in passato denunciò il «ghetto del mondo online, in cui una volta che cadi dentro l’algoritmo non puoi più sfuggirgli».

La sera del 20 novembre 2017 Molly e la sua famiglia hanno cenato insieme nella casa di famiglia a Harrow, quartiere a nord-ovest di Londra. Come tante altre volte si sono poi messi a guardare la tv. «Il comportamento di tutti era normale», spiegò Janet, la madre di Molly. Ma la mattina dopo, alle 7, la donna trovò la figlia morta, nella sua camera. Nessuno aveva compreso fino a che punto la depressione l’aveva colpita.

L'ALGORITMO

E in quale inferno virtuale fosse finita. «Il più cupo dei mondi», raccontò Ian Russell, padre di Molly, in riferimento ai “viaggi” sul web della figlia. «Un ghetto, un mondo che non riconosco». A udienza conclusa, venerdì scorso, il papà ha aggiunto: «È tempo di proteggere i nostri giovani innocenti invece di consentire alle piattaforme social di dare priorità ai loro profitti, facendo soldi sul dolore dei ragazzi». Da quanto emerso dall’inchiesta, si comprende rapidamente quanto l’algoritmo dei social sia stato pervasivo, attraverso migliaia di post su Instagram.

binge watching

Un martellamento oscuro, durato sei lunghi mesi con un’interruzione di soli 12 i giorni durante i quali Molly non ha visionato alcun contenuto nocivo sulla piattaforma di proprietà di Meta. I social media hanno «aiutato a uccidere mia figlia», questa l’accusa del padre di Molly. Mentre il coroner Andrew Walker ha usato termini meno netti, parlando di “probabilità”. Anche se poi ha aggiunto che le immagini di autolesionismo e suicidio che Molly ha visto «non avrebbero dovuto essere a disposizione di un bambino»: gli algoritmi di Instagram e Pinterest hanno portato la ragazza a “periodi di binge watching”, ossia abbuffate di determinati post. «Ed è probabile che questi periodi abbiano avuto un effetto negativo su di lei – ha aggiunt -. Alcuni di questi contenuti hanno romanzato atti di autolesionismo da parte di giovani. Altri hanno cercato di scoraggiare la discussione con coloro che avrebbero potuto dare un aiuto. In alcuni casi, il contenuto era particolarmente realistico, impressionante, e ritraeva il suicidio come una inevitabile conseguenza di una condizione da cui non è possibile uscire».

I dirigenti di Meta e Pinterest

Una parabola infernale: «È probabile che il materiale visto da Molly, già affetta da una malattia depressiva e vulnerabile a causa della sua età, abbia influenzato la sua salute mentale in modo negativo e abbia contribuito alla sua morte in modo non secondario». Una sentenza storica cui è seguita immediatamente la reazione dei dirigenti di Meta e Pinterest che hanno partecipato alle udienze. Il responsabile delle operazioni della community di Pinterest, Judson Hoffman, ha ammesso che Pinterest «non era sicuro» quando Molly lo ha usato e ha detto che «rimpiange profondamente» che abbia potuto vedere alcuni dei contenuti incriminati. La responsabile della Salute e benessere di Meta, Elizabeth Lagone, ha spiegato che i post sotto accusa da parte della famiglia Russell erano «sicuri», ma ha ammesso che una serie di post mostrati nel corso del procedimento avrebbero violato le politiche di Instagram. Inoltre Molly si era iscritta al social a 12 anni, quando l’età minima è 13 anni.

Ultimo aggiornamento: 24 Febbraio, 14:14 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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