KABUL Il rumore delle bombe non li spaventa.
Ma sotto di loro, dieci metri più in basso, i fari di tre blindati americani li inquadrano costantemente. «Sono qui da tre giorni - spiega uno dei marine che fa la guardia - e sinceramente non so cosa possano fare, visto che si trovano così in alto. Ma qui, ultimamente, ho visto veramente di tutto. E non mi sorprenderei se decidessero di buttarsi di sotto».
LA ZONA DI CONFINE
Le strade polverose che corrono lungo il muro di cinta dello scalo sono pattugliate da gruppi di soldati armati. C’è sempre vento. E la polvere che alzano i pick-up porta la visibilità praticamente a zero. Quando ci si avvicina alle porte di ingresso, si sentono chiaramente le grida e le preghiere della gente ammassata fuori dall’aeroporto. Dietro quelle mura giallognole, infatti, ci sono migliaia di afghani, che in qualche modo sono riusciti a superare i check point allestiti dai Talebani nella fascia esterna allo scalo. Spingono per entrare, ma ormai non hanno molte possibilità. E lo sanno bene, per questo non si spostano nemmeno dopo gli attacchi dell’Isis.
LE POSSIBILITÀ
Ormai, dei quattro originari, sono rimasti ancora aperti (si fa per dire) due accessi all’aeroporto: l’Abbey Gate (quello per intenderci della foto simbolo, con il console italiano Tommaso Claudi che salva un bimbo afghano che rischiava di essere schiacciato dalla folla) e il South Gate, che però funziona a singhiozzo. E proprio qui, nella notte, erano già in tantissimi a spingere contro il cancello. Davanti a queste persone imploranti, su due file separate da dieci metri, si vedono gruppi di soldati americani con i mitra spianati. La scena non promette niente di buono. Ma c’è da dire, però, che fino ad oggi gli americani non hanno sparato nemmeno un colpo. «Oggi - racconta uno dei soldati di guardia - abbiamo fatto entrare solo cinque persone, di più non potevamo fare». Una goccia nel mare.
LA TENSIONE
Il pericolo, dunque, è che le migliaia di persone ammassate fuori, decidano improvvisamente di aumentare la loro pressione. Potremmo trovarci di fronte nuovamente a scene drammatiche come quelle di qualche giorno fa, quando ci sono state anche delle persone morte schiacciate della folla. «Abbiamo vissuto un’esperienza terribile - racconta Nazir, un afghano che ha collaborato ad Herat con il nostro esercito - Con mia moglie e i miei quattro figli, siamo rimasti per cinque giorni nella calca. Dopo il primo giorno avevamo finito da mangiare, poi quattro giorni senza niente, solo acqua. Abbiamo rischiato di morire di fame. Gli inglesi ci hanno spinto indietro. Ma poi, i miei fratelli, sono riusciti ad avvertire il generale Faraglia (capo della missione italiana in aeroporto, ndr) che ha venuto a tirarci fuori di persona dall’inferno».
Sono tante le storie come quella di Nazir. Purtroppo sono più quelle che finiscono male che quelle che vanno bene. La speranza è che la situazione non precipiti. Ma tra le migliaia che sono fuori c’è tanta disperazione. E gli americani vanno via. Un mix che può essere letale in queste ultime ore di fuga dall’Afghanistan.