Crollo del muro di Berlino, lo storico:
«Oggi c'è poco da festeggiare»

Domenica 9 Novembre 2014 di Maurizio Cerruti
Crolla il muro, una folla si riversa da Berlino est a Berlino ovest
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Oggi 9 novembre ricorre il 25mo anniversario della caduta del muro di Berlino. Con la crisi del processo di integrazione e degli ideali europei e con la guerra in Ucraina che ricrea una barriera fra Occidente e Russia è il caso di celebrare la ricorrenza? «C’è poco da festeggiare» afferma Francesco Leoncini, professore di Ca’ Foscari, storico slavista che ha appena pubblicato "Tra grande guerra e nuova Europa" (Kellermann) sulla svolta della politica estera italiana nel 1918 a favore della nascita dei nuovi Paesi dalle ceneri dell’impero austroungarico sconfitto. «Con la fine del Muro - aggiunge - all’integrazione è subentrata la frammentazione: Urss, Cecoslovacchia, Jugoslavia. Il processo riguarda anche l’Occidente con Scozia, Catalogna, Belgio. E ora siamo all’Ucraina. Solo la Germania è andata in senso opposto, doveva essere "europeizzata", invece è stata l’Ue a germanizzarsi».



Nel Nordest c’è chi rimpiange l’impero asburgico.



«E’ una nostalgia irrazionale. Dai tempi di Maria Teresa, nell’Ottocento la situazione era molto cambiata. Con l’impero spartito tra le oligarchie austriaca e ungherese (il 99 per cento degli ungheresi erano contadini che contavano nulla) non c’era spazio per gli slavi né per i romeni e gli altri. Gli italiani nell’impero erano di "serie C". Non per nulla salvo una minoranza "austriacante" erano profondamente antiasburgici: andiamo a rileggerci cosa scriveva Alcide De Gasperi rappresentante trentino nel Parlamento di Vienna».



Ci sarebbe voluto, per assurdo, un federalismo imperiale.



«Era uno stato poliziesco, repressivo. Efficiente dal punto di vista burocratico, usava però lo spionaggio capillare per il controllo sociale: nulla da invidiare ai Paesi del futuro blocco sovietico. E giocava con i popoli uno contro l’altro: in Dalmazia ad esempio favoriva i croati a sfavore degli italiani. L’idea di creare una specie di Commonwealth, un "federalismo di popoli", osteggiata fortemente dagli ungheresi, era peraltro accarezzata dall’erede al trono Francesco Ferdinando che fu assassinato a Sarajevo».



Senza la Grande guerra che scoppiò proprio in seguito a quel "regicidio" la nostra storia avrebbe preso un’altra piega?



«Chissà. Di sicuro l’Italia unitaria era rimasta nelle mire di Vienna che nel 1908, dopo il terremoto di Messina, progettò di espellerla dalla Triplice Alleanza per avere mani libere per rioccupare il Nord».



Torniamo al Muro di Berlino e alla rivoluzione dell’89.



«L’Europa è sentita come una realtà estranea e imposta, controllata dall’eurocrazia. Persino i Paesi centroeuropei entrati solo dieci anni fa sono diventati euroscettici: "Una volta eravamo sotto Mosca, ora siamo sotto Bruxelles", si sente dire. Si è visto alle ultime europee: alto assenteismo elettorale, successo dei partiti antieuropei. E in Europa tornano le vecchie divisioni fra italiani e tedeschi, fra slavi, romeni e ungheresi. No, non c’è da festeggiare il dopo-Muro: siamo tornati indietro alle antiche ostilità».
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