Ucraina, il piano degli Usa sul gas e l’esigenza di diventare autosufficienti

Obiettivo di Biden: rinforzare le sanzioni economiche e ridurre la dipendenza energetica europea dalla Russia

Domenica 27 Marzo 2022 di Romano Prodi
Ucraina, il piano degli Usa sul gas e l’esigenza di diventare autosufficienti

Tre vertici si sono svolti a Bruxelles in una sola settimana: il Consiglio della Nato, il G7 e il Consiglio Europeo. Tutti dedicati agli aspetti politici ed economici della guerra in Ucraina e tutti dominati dalla presenza, diretta o indiretta, del presidente americano Joe Biden.

Il suo obiettivo era quello di rendere ancora più stretta e visibile l’alleanza militare, di rinforzare le sanzioni economiche nei confronti del Cremlino e, infine, di ridurre la dipendenza energetica europea dalla Russia.

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Sotto l’aspetto politico la già esistente unità di strategia nell’ambito della Nato e tra tutti i Paesi europei è stata ulteriormente rinforzata, così come ne è uscito un sostanziale accordo sul rifornimento di armi all’Ucraina e sui già esistenti limiti rispetto a un’ulteriore “escalation” dell’intervento militare. E’ stato inoltre deciso di prolungare di un ulteriore anno la nomina di Jeans Stoltenberg a segretario generale della Nato e di irrobustire la presenza dell’alleanza lungo i confini dell’est, non solo in Polonia, ma anche in Bulgaria, Romania e Slovacchia. La strategia di Biden di aiutare a vincere la guerra di Ucraina, evitando di fare la guerra, è stata quindi vincente ed è stata accolta con unanime favore in Europa, dove la non certo eccessiva popolarità del Presidente americano è ora assai aumentata. Per quanto contino le analisi demoscopiche, è singolare il fatto che il giudizio favorevole nei confronti di Biden non sia invece migliorato presso i suoi elettori: i lunghi anni in cui l’opinione pubblica americana è stata tutta concentrata sulla competizione con la Cina, hanno certamente reso più largo l’Atlantico. Per il cittadino americano, gli eventi europei sono ormai distanti e certamente meno sentiti rispetto alla competizione con la Cina. 

Più complesso è il giudizio sulle decisioni economiche, che pure sono state accolte con un certo favore in tutti i paesi europei. Nel comunicato congiunto si legge che Biden si è impegnato a garantire il riempimento del 90% delle scorte europee di gas entro il prossimo autunno, a fornirne 15 miliardi di metri cubi aggiuntivi entro la fine dell’anno per arrivare, entro il 2030, a esportarne in Europa 50 miliardi di metri cubi all’anno, in modo da rendere meno pesante la dipendenza dalla Russia che, nello scorso anno, ha esportato verso i Paesi europei ben 155 miliardi di metri cubi di gas. 

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Ottimo proposito ma, proprio ragionando su autorevoli fonti americane, non proprio facile da concretizzare. In primo luogo anche la pur cospicua esportazione di Gnl (Gas Naturale Liquefatto) degli Stati Uniti non può, per motivi ambientali, crescere sensibilmente oltre gli attuali 100 miliardi di metri cubi all’anno. Inoltre, l’esportazione di gas non può fisicamente aumentare in un breve spazio di tempo perché i terminali americani operano a capacità piena e occorrono quasi tre anni per costruirne di nuovi, che vengono iniziati solo se vi è la garanzia di fornitura e di acquisto per almeno un ventennio. L’unico modo per accrescere sostanzialmente le esportazioni in Europa è quindi quello di deviare verso i nostri mercati parte della produzione che ora viene, per oltre la metà, esportata verso l’Asia. Bisogna però tenere conto che, per una quota consistente, si tratta di contratti a lungo termine e che la modesta parte disponibile deve essere pagata a prezzi concorrenziali con quelli, già altissimi, che vengono pagati dai mercati asiatici. Nel comunicato congiunto sull’accordo non si parla dei prezzi che, ovviamente, negli Stati Uniti non possono che essere lasciati al libero mercato. Se ragioniamo coi dati di oggi, dobbiamo in ogni caso concludere che, oltre al prezzo all’origine, i costi di liquefazione, trasporto e rigassificazione porterebbero il prezzo del gas in Europa a un livello pari ad almeno cinque volte rispetto a quello degli Stati Uniti. Il tutto senza tenere conto del fatto che in Europa gli impianti di rigassificazione già operano a piena capacità, salvo quelli spagnoli, che tuttavia non sono connessi con il resto d’Europa. Anche nel caso europeo, ci vogliono evidentemente anni per costruirne di nuovi.
Ben vengano quindi gli accordi di Bruxelles, anche se ci possono liberare solo di una modesta parte dell’attuale eccessiva dipendenza da Mosca.

Non dimentichiamo inoltre che noi dipendiamo non solo dal 40% del nostro consumo di gas che arriva dalla Russia, ma anche dal 24% che viene dall’Algeria e dalla Libia e dal 10% dall’Azerbaigian. Tutte queste forniture, almeno nel lungo periodo, sono a rischio. Anzi, quando durante il mio governo chiedevo ai massimi esperti italiani di approfondire questo problema, Libia e Algeria presentavano probabilità di interruzione della fornitura assai maggiori della Russia. L’unica decisione ragionevole, data l’impossibilità politica di aumentare a sufficienza la produzione interna, era quindi di diminuire il rischio moltiplicando i Paesi fornitori. Quanto sta avvenendo in questi tragici giorni ci deve spingere a passi ulteriori: dobbiamo camminare con ogni mezzo verso l’autosufficienza nazionale, in attesa che si arrivi a una comune politica energetica europea. Obiettivo che non è certo vicino quando, nello stesso giorno, la Francia decide di costruire sei nuove centrali nucleari e la Germania non ha ancora deciso di rinviare la chiusura delle sue ultime centrali nucleari ancora in funzione. 

Ultimo aggiornamento: 12:10 © RIPRODUZIONE RISERVATA