Il mondo sancisce il tramonto di Donald Trump

Venerdì 8 Gennaio 2021 di Alessandro Orsini
Il mondo sancisce il tramonto di Donald Trump

L’assalto al Congresso americano ha rafforzato l’immagine internazionale di Biden, creando un’attesa mondiale per il giorno del suo insediamento.

Il 20 gennaio 2021 è ormai divenuta una data fatidica. A differenza di quel che molti credono, il problema non sono le rivolte in sé, giacché vi sono rivolte che rafforzano la democrazia e altre che la indeboliscono. Sono, infatti, pochi i democratici che non abbiano solidarizzato con i neri che si sono rivoltati contro l’uccisione di George Floyd, il 25 maggio 2020. Il problema sono le motivazioni della rivolta e i suoi protagonisti. 

Nel caso dell’assalto a Capitol Hill, la motivazione è che Trump non accetta la sconfitta, mentre i rivoltosi sono la parte più imbarazzante della democrazia americana. Il riferimento non è tanto alla pelle di montone di Jack Angeli, che, in fatto di forma, non ha fatto mancare niente, ma ai suoi accoliti con le magliette inneggianti l’Olocausto. Più delle corna dello sciamano, impressiona la felpa nera con la scritta: “Campo di Auschwitz: il lavoro rende liberi”, con un teschio sopra, tanto per chiarire, come se ne sentissimo il bisogno, che il messaggio è mortifero e non vitale. Trump ha perso nella sostanza e pure nella forma, il che, in politica, equivale a perdere su tutto il fronte. Questo, perlomeno, è quanto emerge dalle dichiarazioni dei leader mondiali.

Nel contesto che vige negli Stati Uniti, caratterizzato da una polarizzazione estrema, condannare la rivolta equivale a schierarsi con una delle parti in lotta, anche quando la prudenza induce a non far nomi. Deplorare i rivoltosi significa censurare Trump. L’assalto al Congresso è stato condotto dai suoi sostenitori più amati, da lui mobilitati e poi smobilitati. 

Persino Jens Stoltenberg, il segretario generale della Nato, che quasi mai commenta i fatti interni, ha invitato gli americani a rispettare il voto democratico. La sorpresa arriva da Netanyahu, il leader mondiale più beneficiato da Trump: mai un capo di Stato ha ricevuto così tanto da un presidente americano senza dare niente in cambio. Netanyahu avrebbe forse potuto soprassedere sulle motivazioni, ma, davanti a cotanta brutta forma, non ha potuto fare a meno di definire «vergognose» le violenze che hanno cercato di impedire la proclamazione di Biden, da condannare «vigorosamente». Persino Gideon Saar, leader del Partito della nuova speranza, formazione israeliana di destra che nasce dal Likud, ha dichiarato che «gli avvenimenti di Washington sono un importante monito contro i pericoli della polarizzazione e dell’estremismo nella società. Non dobbiamo mai dare per scontate le democrazie e le istituzioni». 

Sembra che Trump non abbia più amici. Putin non si è pronunciato personalmente, ma ha lasciato parlare i suoi uomini più fidati. Konstantin Kosachev, presidente del comitato per gli affari internazionali della Camera alta, ha censurato «il narcisismo, l’eccentricità e l’avventurismo» di Trump, a cui ha attribuito le responsabilità principali della rivolta, mentre Anton Gorelkin, un influente parlamentare della camera bassa, o Duma, ha lodato Twitter per avere sospeso il profilo di Trump, costretto a cancellare tre post per tornare in onda. Eppure, Trump aveva lottato per far rientrare la Russia nel G8, esclusa per avere annesso la Crimea. La Russia è stato uno dei Paesi a cui Trump ha mostrato le più grandi simpatie. Tutti ricorderanno lo scontro tra Obama e Trump nel gennaio 2017: il primo, che imponeva sanzioni contro i più alti diplomatici russi, e il secondo, che prometteva di ritirarle subito dopo il suo insediamento alla Casa Bianca.

Per Joseph Borrell, alto rappresentante dell’Unione europea per gli affari esteri, i manifestanti hanno condotto «un assalto mai visto prima contro la democrazia americana, le sue istituzioni e il ruolo della legge». Dello stesso tenore sono i commenti di Charles Michel, presidente del Consiglio europeo, e di Ursula von der Leyen, presidente della Commissione, la quale, rotti gli indugi diplomatici, ha fatto i nomi e si è schierata apertamente: «Joe Biden – ha dichiarato – ha vinto le elezioni. Non vedo l’ora di lavorare con lui come prossimo presidente degli Stati Uniti». Il che, in un contesto “bianco o nero”, equivale a dire che non vede l’ora di smettere di lavorare con Trump. Justin Trudeau, primo ministro del Canada, ha twittato che «la violenza non riuscirà mai a rovesciare la volontà del popolo. La democrazia negli Stati Uniti dev’essere difesa», essendo implicito, nel suo discorso, che debba essere difesa da Trump, che ha incitato i suoi sostenitori a scendere in piazza contro Biden. 

Insomma, che si tratti di Paesi amici o nemici, non c’è commento che non sia una celebrazione diretta o indiretta del prossimo presidente americano. Persino Rouhani, il presidente dell’Iran, si è precipitato per impartire una lezione di democrazia a Trump, definito un «uomo malato», che ha gettato vergogna sul suo Paese: «Quando una persona malata assume il potere – ha tuonato Rouhani – vediamo come disonori il suo Paese creando problemi a tutto il mondo». Non ci sono molti dubbi: almeno sotto il profilo della stima internazionale, Biden non poteva accomodarsi alla Casa Bianca in modo più trionfante. L’attesa è massima. Nessuno vuole più attendere. Agli Stati Uniti è andata male; a Biden, non poteva andare meglio.
aorsini@luiss.it

Ultimo aggiornamento: 17:02 © RIPRODUZIONE RISERVATA