Tribunali in crisi/ La riforma duratura che il governo non può fare

Martedì 11 Maggio 2021 di Carlo Nordio

Del programma di riforme della giustizia che dovrebbe essere presentato in settimana dalla ministra Marta Cartabia si può dire in sintesi questo: troppo per conseguire un risultato immediato e concreto, troppo poco per ottenerne uno significativo e duraturo. 
Ci spieghiamo. Le riforme ormai indifferibili sono, come è noto, quelle legate all’emergenza e agli aiuti attesi dall’Europa. Ora, l’impatto negativo della nostra sgangherata giustizia sull’economia è determinato essenzialmente da due ragioni: la lentezza dei processi civili, che scoraggia gli investimenti italiani e stranieri, e il garbuglio delle leggi repressive che paralizzano la pubblica amministrazione. È vero che le altre sofferenze del nostro sistema penale sono, da un punto di vista etico e civile, assai più gravi, perché incidono sui beni primari della libertà e dell’onore, e minano la fiducia del cittadino nelle istituzioni. 
Ma è anche vero che sono, in questo momento, meno urgenti: il sistema elettorale del Csm, la limitazione delle impugnazioni, i criteri di priorità investigativa e le altre novità del progetto non incidono molto sull’emergenza economica.

Per di più sono estremamente divisive, in quanto i partiti di governo hanno idee diverse e talvolta opposte. Ecco perché il programma della Cartabia vuole troppo.

È un programma che rischia di perdersi nelle liti, e di perdere il tram, perché ogni giorno è prezioso. Che fare allora? Per rendere più snella la giustizia civile basta copiare dai sistemi che funzionano, in primo luogo quello tedesco. E quindi semplificare le procedure, aumentare l’organico dei collaboratori amministrativi, accelerare la digitalizzazione e, non ultimo, dare una sistemazione onorevole, mi si perdoni il bisticcio lessicale, ai giudici onorari, che tengono in piedi metà della baracca e vengono trattati in un modo ignobile, con compensi irrisori e senza le garanzie minime di stabilità. 

Quanto all’efficienza della pubblica amministrazione basterebbe intervenire su quei reati evanescenti come l’abuso d’ufficio e il traffico di influenze che intimidiscono sindaci e assessori e ne paralizzano l’attività. Tutto questo si potrebbe fare in poche settimane, e poi, come insegna il poeta, la ragione riprenderebbe a parlare e la speranza a rifiorire. 
Il progetto di riforma del processo penale è invece irrealizzabile in tempi brevi. Non solo perché non è per niente condiviso, ma perché, per ottenere risultati netti e duraturi dovrebbe essere ben più ampio di quello trapelato in questi giorni. Le timide innovazioni prospettate dalla ministra Cartabia sono delle aspirine per combattere il cancro. 

Se infatti i cittadini potessero, come la Lince di Beozia, vedere sotto la pelle della giustizia penale, troverebbero un organismo corroso, metastatizzato da una serie di incurabili e invadenti neoplasie. Quando, più di un anno fa, lo scandalo Palamara investì il Csm, tutti capirono, o avrebbero dovuto capire, che eravamo solo agli inizi, o meglio agli inizi della fine. Da principio si dimisero alcuni consiglieri, sui quali il Procuratore Generale aveva iniziato un’indagine disciplinare; poi si dimise lo stesso Procuratore, anche lui finito nelle intercettazioni. 

Il Csm che, come nella sinfonia degli addii di Haydn, continuava a perdere orchestrali, credette di cavarsela radiando Palamara e mettendoci una pietra tombale. Ma il morto ha afferrato il vivo, ed eccoci allo scandalo, secondo noi ancora più grave, di questi giorni. Non staremo, per carità di patria, a rievocare le anomalie che hanno contrassegnato i comportamenti dei vari protagonisti, nessuno dei quali esce indenne da questa poco edificante vicenda.

Certo, fa quasi tenerezza ascoltare il vicepresidente Ermini che lamenta un tentativo di delegittimazione del Consiglio, come se questo non si fosse delegittimato abbastanza da sé. E mentre tre o quattro procure indagano, e indagheranno, sui comportamenti di chi ha consegnato atti secretati, di chi li ha ricevuti e di chi li ha diffusi, il cittadino attonito, sgomento e disgustato si domanda se sia possibile rimediare a questa umiliante disgregazione con accorgimenti modesti e parziali.

Ecco perché, con tutto il rispetto per la ministra Cartabia, questo programma è troppo ridotto. Una riforma efficace e duratura dev’essere ben più radicale: occorre attuare davvero i principi del giusto processo e della sua ragionevole durata; occorre mutare l’intera struttura del Csm, rivedere integralmente la disciplina delle intercettazioni, separare le carriere, e in definitiva riportare il codice alla sua originaria ispirazione garantista e liberale. 

Vasto programma, direbbe De Gaulle, che questo Parlamento non ha l’intenzione né la forza di fare. E infatti gli eredi di Pannella stanno predisponendo un referendum che scuota l’inerzia istituzionale come fece cinquanta anni fa sconfiggendo il conservatorismo retrivo degli antidivorzisti. Sarebbe un successo della civiltà giuridica, ma l’ennesima sconfitta di una politica fiacca, ancora intimidita dalle toghe.

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