I timidi segnali di de-escalation delle scorse ore vanno osservati (e se possibile moltiplicati) e tutte le prospettive che possono portare al dialogo vanno esplorate.
Partendo da Putin, l’inquilino del Cremlino può dire di aver portato a casa parecchio. Ha usato al meglio le risorse che la superpotenza russa possiede e che sono qualitativamente limitate (materie prime e forza militare), ha mostrato che la Russia non è isolata, incassando il sostegno esplicito cinese e facendo un passo ulteriore nel percorso di avvicinamento tra Mosca e Pechino. È stata una mossa che ha concorso all’escalation della crisi (peraltro innescata deliberatamente dalla Russia con l’impiego della minaccia militare verso Kiev) ma l’allineamento tra le potenze autoritarie si è avviato quando la Cina ha fatto questa scelta, circa un decennio fa. Ha indebolito l’Ucraina e il suo presidente Zelenski (che difficilmente sarà rieletto) ed esibito i limiti dell’appoggio occidentale alla sicurezza militare di Kiev.
Joe Biden può comunque rivendicare di aver evitato una guerra, e di aver impedito che la Russia facesse in Ucraina nel 2022 quello che ha fatto in Crimea e nel Dombass nel 2014. Ci è riuscito facendo salire il costo reputazionale dell’uso della forza da parte del Cremlino. Ha spinto gli europei a prendere posizioni ferme anche se costose, ribadendo loro che la sua amministrazione non ha scelto il Pacifico a scapito dell’Atlantico. Ai cinesi, infine, ha mandato a dire che se Washington è determinata ad assumersi simili rischi per l’Ucraina, possono togliersi dalla testa l’idea di risolvere a modo loro la questione di Taiwan.
L’Europa ha “tenuto”. Nonostante la Brexit, nonostante una Germania orfana di Angela Merkel e con una coalizione da rodare e divisa sui temi della politica estera ed energetica, nonostante una presidenza francese sotto elezione, nonostante i problemi interni con Polacchi e Ungheresi, nonostante la fame di gas, la pandemia, le prospettive di inflazione e i tentativi palesi di Putin di ignorarla, di trattare con sufficienza la Francia (presidente di turno) e blandire la Germania, l’Europa non si è disunita e non si è distanziata dalla Nato. Ma ha offerto una prospettiva articolata di tavoli su cui impostare una trattativa multilaterale non fondata sull’illusione di quella “convergenza” tanto a lungo perseguita da Mosca – ricordate lo “spazio economico eurasiatico”? – e soprattutto ha ribadito gli aspetti normativi che stanno alla base della sua visione, della sua sicurezza esistenziale e della sua stessa ragion d’essere: il rifiuto dell’uso della forza, il rispetto della sovranità e la superiorità della legge. Poi, prima inizia anche a diversificare fonti di approvvigionamento e di produzione energetica e meglio è.
L’Ucraina non è stata invasa, ha mantenuto il punto della scelta della sua collocazione internazionale e ha ribadito che un accordo per la sicurezza dei suoi ingombranti vicini (Russia, Ue e Stati-membri) non può essere conseguito a sue spese, sacrificandola sull’altare di una “nuova distensione”. Sono risultati parziali, reversibili e fragili. Ma da qui si può, e si deve, partire: per sottrarre il tema reale di una nuova architettura di sicurezza continentale alla claustrofobia artificialmente creata intorno alla questione (mai stata all’ordine del giorno) dell’adesione dell’Ucraina alla Nato.