Giudici contro/ Il pasticcio giudiziario del processo Open Arms

Lunedì 25 Ottobre 2021 di Carlo Nordio

Il Tribunale di Palermo, che processa Salvini per la vicenda della nave Open Arms, ha convocato, come testimoni, una cinquantina di persone.

A parte Richard Gere, campeggiano i nomi dei ministri ( o ex ministri) Trenta, Toninelli, Di Maio e Lamorgese oltre all’ex premier Conte. Se la chiamata - e la presenza - del noto attore erano opinabili e rimarranno incerte, quella dei colleghi dell’imputato era ovvia e necessaria. Ma forse vale la pena di ricapitolare . 

Il governo Conte 1, a torto o a ragione, aveva deciso il blocco degli sbarchi clandestini, attuato concretamente dal ministro degli Interni. Per questo Salvini era stato a suo tempo indagato, avendo bloccato la nave “Diciotti”. Ma il Senato aveva negato la procedibilità, affermando che si trattava di un’insindacabile attività politica. 
Cambiata la maggioranza di governo, ma sempre con lo stesso premier (il Conte 2), il Senato aveva deciso in modo opposto sulla situazione assolutamente identica della nave “Gregoretti” e della “Open Arms”. Ma se la politica si è divisa, altrettanto ha fatto la magistratura. 

Sul presunto reato di sequestro di persona Procure e giudici hanno infatti deliberato in modo diverso. Il Gip di Catania, dopo una minuziosissima istruttoria, ha accolto le richieste della locale Procura (...)
sul caso “Gregoretti” per un’assoluzione piena, con la formula che «il fatto non sussiste». Quello di Palermo, al contrario, ha mandato Salvini a giudizio sul caso “Open Arms”. L’imputazione è la medesima: avere tenuto a bordo di una nave qualche decina di migranti. È un atteggiamento che può confliggere con la nostra solidarietà cristiana, ma che rientra nei poteri e nella responsabilità della gestione politica. Tanto è vero che il governo Conte (2) ha segregato in casa per mesi 60 milioni di italiani, talvolta in condizioni analoghe a quelle dei migranti, attraverso semplici provvedimenti amministrativi: sono stati veri e propri arresti domiciliari che abbiamo sopportato per necessità.

Nel frattempo è intervenuto lo scandalo del dottor Palamara - per lungo tempo potentissimo distributore di cariche apicali di magistrati - che parlando con un autorevole Pm ha ammesso l’innocenza di Salvini, ma ha affermato la necessità «di attaccarlo». Al che l’autorevole interlocutore gli ha risposto testualmente: «È una cazzata atroce attaccarlo adesso, perché tutti la pensano come lui, che ha fatto benissimo a bloccare i migranti». Edificante. Dopodiché Palamara ha telefonato al Pm di Agrigento, che stava inquisendo Salvini, manifestandogli solidarietà. Lo stesso Palamara nel suo libro ha confermato queste telefonate, ma ne ha dato, per così dire, una spiegazione “politica”. È un’ipoteca inquietante e quasi sacrilega che grava sulla magistratura in genere, e su questi processi in specie. Quindi torniamo a quello di Palermo.

È presumibile che a Conte saranno poste le seguenti domande: sapeva o no che Salvini stava bloccando la nave? E se lo sapeva, era d’accordo o meno? Nel caso Conte rispondesse che non sapeva rischierebbe l’incriminazione per falsa testimonianza, perché dal dibattito parlamentare che ne è seguito parrebbe che fosse in disaccordo con il suo ministro, e quindi sapesse. E tuttavia, in questo caso, Conte sarebbe responsabile per quello che si chiama concorso per omissione. 

In quanto garante dell’indirizzo politico del governo, il presidente del Consiglio aveva infatti il dovere non solo di dissociarsi ma di impedire il reato. E poiché «non impedire l’evento che si ha il dovere giuridico di impedire equivale a cagionarlo» (articolo 40 del codice penale) Conte dovrebbe coerentemente essere chiamato a risponderne. Perché il Pm di Palermo non si sia attivato in questo senso è un mistero, tanto più che il giudice di Catania, assolvendo Salvini, ha spiegato che se lo avesse mandato a giudizio avrebbe dovuto far incriminare anche Conte. 

Il problema si complica perché a Milano il procuratore capo è indagato proprio per omissione, o ritardo, di atti d’ufficio, per non avere iscritto nel registro degli indagati i protagonisti della cosiddetta Loggia Ungheria. Coerentemente dovrebbero dunque essere indagati il procuratore della Repubblica di Agrigento, che è salito sulla nave “Diciotti”, ha ipotizzato il reato di sequestro di persona, e se n’è andato senza liberare i sequestrati, contrariamente al suo dovere di evitare che «il reato fosse portato a conseguenze ulteriori». E altrettanto per il procuratore di Palermo, che avrebbe dovuto iscrivere Conte assieme a Salvini. Sia chiaro che noi non condividiamo, né tantomeno auspichiamo queste iscrizioni, ma coerenza vorrebbe che questa interpretazione della legge fosse almeno omogenea. 

In questo infernale pasticcio ora la parola passa al Tribunale, e ai difensori di Salvini che presumibilmente metteranno la Lamorgese in imbarazzo e Conte in croce. Era un evento che su queste pagine avevamo previsto, auspicando che la Giunta prima e il Senato poi decidessero in modo conforme al caso precedente, evitando che ancora una volta la politica fosse sottoposta al vaglio della magistratura. 
Così non è avvenuto, e ora le conseguenze sono imprevedibili, e probabilmente funeste per la stabilità del Paese. Questo dimostra che quando strumentalizzi la Giustizia quest’ultima si vendica, perché la sua spada, come tutti sanno, è senza impugnatura, e ferisce anche chi la brandeggia. Soprattutto se lo fa in modo improprio, per meschini calcoli di convenienza elettorale. 

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