Generazioni contro/ Il problema della pensione che i giovani non sentono

Giovedì 14 Luglio 2022 di Paolo Balduzzi

Ci sono persone che pur soffrendo di vertigini amano la montagna.

E ci sono persone che, pur non soffrendo di vertigini, avranno qualche giramento di testa davanti ai numeri del XXI Rapporto Inps, presentato e illustrato pochi giorni fa dal suo presidente, Pasquale Tridico. Trecentododici i miliardi spesi ogni anno dall’istituto di previdenza sociale, ventidue i milioni di pensioni erogate e 16 i milioni di beneficiari. Tra tutte queste cifre, quella che più colpisce però è una voce straordinaria, particolarmente eclatante per l’anno a venire: ventiquattro i miliardi previsti per adeguare all’inflazione galoppante le pensioni che ne hanno diritto. Una dimensione che impressiona per almeno due motivi. Il primo è quello forse più ovvio. Ventiquattro miliardi sono l’equivalente di circa 3 punti in più di aliquota Iva (dal 22 al 25%) o di 1,3 punti percentuali del prodotto interno lordo 2021. Curiosamente, sono anche la stessa cifra che lo Stato si troverà a dover pagare tra il 2022 e il 2025 per sostenere “Quota 100”, l’anticipo pensionistico temporaneo e sperimentale introdotto nel 2018 e ora definitivamente eliminato. A conferma che, per determinate categorie, le risorse si trovano facilmente. Il reddito delle persone più anziane, benché non elevatissimo, è comunque certo, sicuro e a prova di potere d’acquisto. Una bella differenza con i lavoratori, in particolare quelli più giovani.

Sì, perché il secondo motivo per cui questa cifra impressiona è che, al contrario delle fasce più anziane, mai si annuncia un’operazione di valore paragonabile quando si parla di politiche giovanili. Per intenderci, la rivoluzione (sulla carta) dell’Assegno unico per figli costa 19 miliardi l’anno, cinque in meno dell’adeguamento al potere d’acquisto per le pensioni. E il significato di politiche giovanili ha comunque un senso molto più ampio: assistenza famigliare anche in termini di servizi (asili nido), politiche di inclusione, lotta alla disoccupazione, investimenti in istruzione e così via.

Cos’altro scoprirebbe un giovane che leggesse questo Rapporto? Innanzitutto, che dovrà lavorare più a lungo dei suoi genitori. Da un lato, questo è naturale, avendo cominciato a lavorare in età più avanzata. E poi perché, fortunatamente, molti lavori oggi sono molto meno faticosi e usuranti che in passato. E perché le condizioni di salute, anche in età avanzata, sono migliorate. Ma lavorare più a lungo non significa solo farlo fino a età più avanzate: significa soprattutto farlo per più anni. Sono pochissimi oggi i pensionati che hanno lavorato più di 40 anni. Mentre per chi comincia a lavorare oggi superare i 40 anni di contributi sarà un requisito minimo. E in ogni caso, a parità di anni di contribuzione, le pensioni dei più giovani saranno mediamente più basse di quelle erogate oggi. Più giuste, da un certo punto di vista, perché più eque e correlate ai contributi versati. Ma il confronto con le generazioni precedenti sarà, anzi è già, impietoso: per coloro che sono nati tra il 1965 e il 1980 (cosiddetta “Generazione X”), il Rapporto testimonia come carriere di lavoro più irregolari, caratterizzate da contratti da lavoro temporanei, avranno un impatto significativo sugli assegni pensionistici. E la situazione non può che essere peggiore per le generazioni successive. Sia chiaro, nessuno vuole eliminare totalmente certi privilegi dei pensionati correnti (anche se qualche politico e sindacalista si arrabbieranno a sentirli chiamare così): ma un loro piccolo e simbolico ridimensionamento, alla luce della dimensione della spesa pensionistica odierna e delle prospettive dei lavoratori più giovani, è necessario. Anche perché, e il recente libro di Luca Cifoni e Diodato Pirone (“La trappola delle culle”) lo dimostra, sempre meno in futuro saranno le nascite. E sempre meno, di conseguenza, i lavoratori che potranno sostenere il sistema pensionistico. Purtroppo, c’è un problema di importanza strategica. Salvo rare eccezioni, sono pochi i giovani che si stanno ponendo il problema. Qualcuno perché oggettivamente impegnato a far quadrare i conti di un progetto di vita che fatica a decollare, tra un lavoro che non si trova e un figlio che è sempre più un lusso. Qualcun altro perché distratto da notizie diverse. Qualcuno, infine, e bisogna a malincuore ammetterlo, semplice perché colpevolmente disinteressato dal mondo che lo circonda. Qualunque sia la ragione, è evidente che parte della responsabilità, che più volte anche da queste colonne abbiamo attributo a una classe dirigente miope, risiede anche in chi avrebbe per primo tutto l’interesse a ottenere gli stessi diritti dei propri nonni e dei propri genitori. Perché questi giovani, nel corso della loro vita, avranno studiato di più, avranno lavorato di più e avranno probabilmente anche contribuito di più alle casse dell’Inps e a quelle dello stato, ricevendo in cambio solo silenzi o, nella migliore delle ipotesi, tante promesse e pochi soldi.

In questi torridi giorni di luglio, con l’aria bruciata da un sole cocente e da incendi misteriosi, abbiamo cercato sollievo nelle grandi vittorie sportive del passato: 40 anni fa la Coppa del mondo di calcio in Spagna, un anno fa il trionfo agli Europei e gli ori olimpici più belli e inaspettati della nostra storia. Abbiamo usato questi trionfi per sentirci più nazione. Più uniti. Ma celebrare il passato ha senso solo se si guarda al futuro: altrimenti si riduce a nostalgica rievocazione. Potremmo mai usare una tabella dell’Inps allo stesso scopo? Più difficile, di sicuro. Forse impossibile. Ma se così fosse, tra 40 anni, avremmo una vittoria ancora più bella da festeggiare.

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