Ostruzionismo Pd/ La ripartenza senza indugi che un premier deve garantire

Lunedì 1 Febbraio 2021 di Alessandro Campi

Non può esserci nessun veto contro Conte – sostengono in coro Pd e M5S.

Giusto, condivisibile. Ma allora – per puro buon senso, lasciamo perdere la logica o la ragionevolezza politica – non può nemmeno esserci alcuna pregiudiziale a favore di Conte, come continuano a sostenere in coro Pd e M5S. 

Eppure proprio questo sta accadendo: se Renzi, pur senza dirlo ufficialmente, sembra porre come condizione per far rinascere la vecchia maggioranza un cambio netto alla guida di Palazzo Chigi, i suoi ex e forse futuri alleati sostengono invece che nessun nuovo governo potrà nascere che non sia guidato appunto da Conte. Con il rischio che una crisi che dovrebbe, nell’interesse della nazione, trovare una rapida ed efficace soluzione – politica, se sarà possibile, tecnico-istituzionale, se diventerà necessario – rischia di avvitarsi su stessa e di rendere plausibile ciò che sarebbe meglio evitare in questo momento: le elezioni anticipate.
Come è noto, in politica (e in generale nelle procedure negoziali) le posizioni assolute e troppo rigide – del tipo “o così o niente” – non pagano mai. Il rischio è che si finisca per ottenere il contrario di ciò che si vorrebbe, o comunque un effetto indesiderato. Nel corso di una trattativa – e quella in corso è esattamente una trattativa tra forze politiche in cerca di una faticosa intesa all’indomani di una traumatica separazione – bisogna sempre avere una soluzione di riserva, una mossa di ripiego.

La cosa più importante, quando si attacca, è avere un piano in caso di ritirata. I compromessi, inoltre, non sono mai per definizione al rialzo, ma sempre al ribasso: funzionano quando ognuna delle parti cede qualcosa. Altrimenti il fallimento è assicurato.

Un fallimento che nel caso della crisi in corso rischia di gravare soprattutto sulle spalle del Partito democratico. La posizione di Renzi, al di là delle accuse moralistiche e del tutto impolitiche di irresponsabilità e spregiudicatezza che gli vengono rivolte da coloro che si comportano sulla scena pubblica esattamente alla stessa maniera (è la politica, bellezza!), ha a ben vedere una sua coerenza. Chiede un governo politico che sia una riedizione della precedente coalizione, ma chiede anche di ragionare prima su un serio programma di riforme (da mettere nero su bianco: contenuti e tempi) e poi sul nome di chi potrà realizzarlo al meglio. Potrebbe essere Conte, a certe condizioni, ma potrebbe anche non esserlo. In politica meglio evitare i salvatori della Patria o gli attori che pretendono di recitare tutte le parti in commedia o che ambiscono ad essere protagonisti in ogni stagione. In ogni caso, l’architrave di un sistema politico non può essere un solo uomo, senza il quale c’è da temere che tutti crolli.

Una posizione che sarà pure – come dicono i suoi avversari – puramente strumentale e tattica, finalizzata unicamente a mettere fuori gioco il presidente del Consiglio uscente, ma che formalmente suona tutt’altro che come un “prendere o lasciare”. Nello schema di gioco renziano, il Conte Ter rappresenta un’opzione realistica, non la soluzione esclusiva o unica. 
Che è invece ciò che sostiene – paradossalmente con più convinzione e caparbietà dello stesso M5S – il partito guidato da Nicola Zingaretti, che a più riprese ha definito Conte, con un gergo vagamente paleo-comunista, «il punto di equilibrio più avanzato», un nome dunque assolutamente non negoziabile: non un esito possibile, ma l’esito necessario e inevitabile della crisi. Ma da dove nasce una simile posizione, che se mantenuta con troppa intransigenza potrebbe risolversi in una sorta di veto al contrario, speculare a quello che Renzi sembrerebbe nutrire nei confronti di Conte, ed egualmente paralizzante d’ogni trattativa?

C’è chi sostiene che gli equilibri che preoccupano Zingaretti, più che quelli del futuro governo, siano in realtà quelli interni al suo partito. Del quale è il segretario, dunque il capo politico formale, ma sul quale sembra avere un controllo solo relativo e parziale, pressato com’è sin dal giorno della sua elezione da una nomenklatura che, specie quella di matrice post-democristiana, spesso tende a muoversi in modo autonomo e con obiettivi diversi dai suoi. Nel Pd ci sono, tra le sue diverse componenti, rapporti di forza che col tempo – tra cambi repentini al vertice, rovesci elettorali e scissioni verso destra e verso sinistra – sono diventati sempre più fragili e precari. Nei suoi ranghi non c’è nessuno, oggi più che mai, in grado d’imporre una linea d’azione unitaria e condivisa. Così come si fatica a capire quale sia il suo orizzonte politico-culturale – se si eccettua un europeismo spesso acritico e al limite dell’ortodossia ideologica.

In questo quadro, Conte ha finito per diventare il garante esterno, in quanto estraneo alla sua storia, alle sue dinamiche e ai suoi conflitti di potere, di un partito altrimenti in crisi d’identità e – finita malamente la stagione eroica del riformismo d’assalto renziano – senza più una chiara strategia politica (ricordiamoci che Zingaretti, dopo la fine del governo giallo-verde, voleva le elezioni anticipate, e che la nascita dell’esecutivo giallo-rosso guidato per l’appunto da Conte gli fu praticamente imposta: da Renzi, da alcune componenti del suo stesso partito, dai grillini e infine dal Quirinale).

Ma in prospettiva Conte è anche colui che, favorendo la convergenza sempre più strategica tra democratici e grillini grazie alla comune esperienza al governo e mettendosi alla guida di un campo politico in senso lato progressista – una coalizione che potremmo definire i “Democratici a 5 Stelle – potrebbe consentire al Pd, quando presto o tardi si andrà alle urne, di tornare ad essere elettoralmente competitivo contro le cosiddette “destre”. Qualcuno sostiene che quest’esito, più che la metamorfosi della sinistra italiana, potrebbe rappresentarne la fine nemmeno tanto gloriosa, ma questa è un’altra storia... 
Insomma, difendendo a spada tratta Conte – più che difendere gli interessi dell’Italia e degli italiani – il Pd sembra aver imboccato la difesa ad oltranza dei propri traballanti equilibri interni, di una congiuntura che gli ha consentito di essere forza di governo pur avendo nella sostanza perso le elezioni politiche del 2018 e delle sue future strategie politico-elettorali.
Una posizione legittima, per carità, a condizione che ad essa non si finisca per sacrificare quello che è al momento l’interesse cogente del Paese, così come espresso in questi giorni da tutte le sue diverse componenti sociali ed economiche: avere al più presto un governo che sia autorevole, stabile e capace di realizzare tutte quelle riforme che il Capo dello Stato, al momento di consegnare il mandato esplorativo al Presidente della Camera, ha indicato come necessarie e improcrastinabili.

Il problema – e su questo Renzi, per quanto strumentale possa essere considerata la sua posizione, ha ragione da vendere – non è il nome del futuro inquilino di Palazzo Chigi, ma la qualità del programma che si riuscirà a mettere a punto, la qualità della squadra chiamata a realizzarlo, la chiarezza degli impegni assunti dai diversi partiti intenzionati a far rinascere la precedente coalizione. Il nome verrà alla fine del percorso e se non dovesse essere quello di Conte nessuno potrà gridare alla democrazia tradita. Se nessuno è insostituibile nella vita reale, figuriamoci in quella politico-istituzionale.

Questo per quel che riguarda la soluzione, alla quale si sta lavorando in queste ore, di un esecutivo politico. Ma se le difficoltà, oltre i veti incrociati pro o contro Conte, dovessero riguardare anche il programma e la disponibilità a collaborare con gli ex-alleati di questo o quel partito, considerato altresì il fallimento dei tentativi fatti per trovare in Parlamento pattuglie di cosiddetti “responsabili”, sarebbe bene saperlo al più presto in modo da dare al Presidente Mattarella la possibilità di sondare altre formule di governo, altre maggioranze e altre soluzioni istituzionali. Sapendo che anche in questo caso prima d’ogni nome conterà la chiarezza sulle cose da fare e la volontà di farle presto e bene. 

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