Metodo condiviso/ La Ue non può permettersi la deriva siriana per la Libia

Venerdì 5 Giugno 2020 di Vittorio Emanuele Parsi
Metodo condiviso/ La Ue non può permettersi la deriva siriana per la Libia
Un’attiva solidarietà europea che parta dall’identificazione di una posizione comune sulla quale convergere nel nome di un interesse condiviso. È il principio che ha consentito di dare vita al “Recovery Fund” europeo ed è quello che ci aspettiamo legittimamente venga applicato ovunque gli interessi vitali europei siano in gioco, compresi quelli di sicurezza e a partire dalla Libia. La Libia è a rischio di “sirianizzazione”, una prospettiva che non solo l’Italia, ma l’Europa tutta non può permettersi. 

A una simile prospettiva hanno concorso i velleitarismi, le indecisioni e le incoerenze di più di un Paese membro dell’Unione: a partire da Francia e Italia, che d’altra parte hanno agito – nel bene e nel male – a fronte di una latitanza dell’Unione nel suo complesso, della confusione e del disingaggio degli Stati Uniti, dell’attivismo e russo e turco oltre che saudita, egiziano, emiratino o quatariota.

Nei mesi più drammatici dell’emergenza coronavirus, Ankara e Mosca sono sembrati protagonisti assoluti o perlomeno solitari. Le due leadership hanno potuto continuare a gestire le proprie politiche estere come se uno autentico tsunami non avesse colpito il pianeta, il sistema internazionale e i loro stessi sistemi economico-sociali. Ma hanno dovuto constatare come la via del patrocinio sempre più muscolare dei propri “clienti” locali non portava da nessun’altra parte che verso la moltiplicazione del caos. 

Non è un caso che proprio Ankara e Mosca stiano cercando una forma di compromesso che eviti un’ulteriore escalation e che su questa prospettiva si muovano anche Stati Uniti ed Egitto.

Una sirianizzazione della Libia non possono permettersela non solo l’Italia o la Francia, ma l’Europa nel suo complesso, perché proprio come Unione abbiamo almeno due confini con la Libia, entrambi porosissimi alla destabilizzazione. Il primo e più ovvio è quello mediterraneo, il secondo e meno scontato è quello del Sahel, dove francesi, italiani e tedeschi da ben prima della pandemia operano congiuntamente e con grande “discrezione”. 

Quando pensiamo al tracollo della Libia, alla radicalizzazione e cronicizzazione delle sue lacerazioni intestine, al suo divenire sempre più un mero campo di battaglia e di scontro tra ambizioni e interessi esterni, una delle prime emergenze a cui probabilmente pensiamo è quella migratoria. Le coste libiche come una gigantesca “infrastruttura” a disposizione dei network criminali che lucrano sulla disperazione. La seconda è quella della creazione di un gigantesco santuario per le più svariate organizzazioni jiahdiste cui potrebbe offrire una nuova dimensione territoriale. Tutte considerazioni legittime e giustificati motivi di preoccupazione e, soprattutto, moventi per un’azione comune.

Dovremmo tuttavia ricordarci che l’intero Sahel potrebbe “saltare” se la Libia finisse ulteriormente fuori controllo, con i rischi di diventare un gigantesco serbatoio e moltiplicatore di quelle preoccupazioni per la nostra sicurezza e la nostra stabilità che, giustamente, tornano a farsi più presenti a mano a mano che la sospensione delle nostre vite si allontana insieme al lockdown.

Trovare il punto di convergenza delle diverse politiche e dei diversi interessi nazionali è sempre complicato: lo abbiamo ben visto nei ritardi e nelle lentezze con cui l’Unione e i suoi Stati membri sono arrivati a concepire una politica comune nei confronti delle disastrose conseguenze economiche e sociali della pandemia. Ma trovare un punto di convergenza è la sola possibilità che abbiamo per non essere condannati all’irrilevanza di fronte alle sfide nuove e a quelle che, seppur ci appaiano “vecchie” – o dovremmo dire più consuete – non per questo si risolvono da sole o cessano di essere meno cruciali. Le rivalità nazionali possono essere stemperate e trovare un punto di sintesi solo all’interno di una concezione che si proponga come autenticamente europea. In passato in molti, noi compresi, hanno tentato di intestarsi questa o quella politica presentata come il perseguimento di un interesse comune senza che davvero lo fosse. Oggi Washington sembra premere per un maggiore coinvolgimento italiano nella crisi. Roma farà bene a non defilarsi, a recuperare la saldezza del rapporto con Serraj, ma dovrà anche guardarsi dal non finire strumento dell’ondivaga politica altrui. 

Se una cosa la pandemia ci ha insegnato è che non è più tempo di magheggi, furbizie e dissimulazioni, che non solo non portano da nessuna parte, ma depistano e fanno perdere tempo. Non basta sperare che la lezione sia stata imparata. Occorre anche lavorare con pazienza e determinazione per metterla in pratica ed estenderne il campo di applicazione: semplicemente perché tutte le altre alternative sono peggiori.
Ultimo aggiornamento: 11 Giugno, 09:18 © RIPRODUZIONE RISERVATA