I “ladri di notizie”/ L’attendismo dell’Europa e i pericoli per l’informazione

Venerdì 19 Febbraio 2021 di Carlo Nordio
I “ladri di notizie”/ L’attendismo dell’Europa e i pericoli per l’informazione

Se dalla Cina è piombata l’anno scorso una pandemia che ha rivoluzionato il nostro modo di vivere, ora dall’Australia arriva una controversia che rischia di sovvertire, o comunque di mutare profondamente, il sistema di comunicazione.

Naturalmente si tratta di un problema di minor gravità e impatto sociale. Tuttavia, tenuto conto dell’importanza delle notizie nell’attuale sistema globalizzato, esso può degenerare, se non viene risolto presto, in un’intollerabile confusione. 

I fatti sono questi. Il governo di Canberra ha imposto alle piattaforme digitali l’obbligo di pagare gli editori per la condivisione di notizie pubblicate. Un provvedimento nuovo ma giusto, visto che i costi sono sostenuti da questi ultimi, mentre quelle ne traggono vantaggi gratuiti. Google ha cercato e trovato un accordo con Murdoch e i suoi giornali. Facebook, al contrario, ha annunciato la rappresaglia: ha bloccato la condivisone di link e di news per gli utenti e per le pagine del Paese. 

Poco male, si direbbe. E invece no. Perché il divieto riguarda anche le notizie di interesse pubblico: segnalazioni di incendi, di focolai di Covid, di disastri naturali ecc. Tutte pagine di cui vigili del fuoco, servizi medici e meteo d’emergenza si servivano per comunicare notizie rilevanti. 

L’azienda di Mark Zuckerberg si è giustificata sostenendo che l’imposizione dei compensi era illegittima, che il suo guadagno sulle “notizie” captate dai giornali era minimo, e che in definitiva, in mancanza di una regolamentazione, può pubblicare, o omettere di pubblicare, quello che vuole. E questo è appunto il problema che fino ad ora tutti abbiamo incautamente ignorato.

Come abbiamo a suo tempo scritto in queste pagine, questo sito, utilizzato in origine da giovani esuberanti e inventivi, è diventato un pulpito di iniziative politiche, di esortazioni omiletiche, di promozioni economiche, di suggerimenti finanziari, di divertenti videogiochi, di contrasti polemici e di scambi sentimentali. Ha sostituito gli augusti scranni dei parlamenti, dei governi e persino della Chiesa, per inviare messaggi ridotti nel contenuto ma incisivi nella rapidità. E mentre il gigante prosperava, non ci siamo accorti che in questo modo non solo sfuggiva al nostro controllo, ma che, affermandosi come indispensabile strumento di comunicazione, assumeva un potere che condizionava, assorbendole, alcune prerogative dello Stato. 

Se infatti i pompieri e gli altri servizi pubblici australiani si trovano ora limitati nelle informazioni e paralizzati nell’operatività è perché, step by step, si sono consegnati negli anni a questo colosso confidando nella sua efficienza e nella sua lealtà solidale. Dal canto suo Zuckerberg ha abilmente inserito nel contesto dell’informazione gratuita quella che potremmo chiamare informazione di servizio, ipotecando progressivamente l’interesse collettivo nel vincolarlo al suo tornaconto privato. 

E adesso che questo tornaconto è - si fa per dire - minacciato dall’imposizione di un sacrificio economico, il proprietario reagisce sopprimendo gli annunci di pubblica utilità. Così, oltre agli inconvenienti già noti - i furti di identità, le fake news, le iniziative fraudolente, l’apologia di alcune dittature, i pericolosi giochi di ruolo minorili ecc. - l’Australia, ma temiamo mezzo mondo, si trova ingabbiato in una rete tentacolare dalla quale può districarsi soltanto recuperando quella parte di sovranità che aveva ceduto, quasi senza accorgersene, a un monopolista privato. 

Per fortuna non è mai tardi per correre ai ripari. Gli Stati hanno tutti gli strumenti giuridici per rimediare a questa situazione. Possono favorire, com’è avvenuto per Murdoch, accordi transattivi tra editori e piattaforme, accollando a queste ultime oneri complementari, come accade a qualsiasi azienda privata quando la sua iniziativa interferisce negli interessi generali. 

O possono anche agire di imperio, imponendo condizioni esplicite e vincolanti. Tutto questo, naturalmente, presuppone un’unità di intenti e un’omogeneità di risoluzioni, perché la controparte è ricca e potente. I Paesi autoritari possono agire rapidamente e senza andare troppo per il sottile. La Cina lo ha già fatto, e lo rifarà ogni volta che lo riterrà conveniente. Per le democrazie il discorso è diverso. Ma sarebbe bene che l’Europa cominciasse a occuparsene. Dopo la figuraccia sui contratti dei vaccini, che l’ha messa alla mercé della Pfizer, che con il Viagra ha rivoluzionato l’approccio reale, non vorremmo che si trovasse un domani a dipendere da Facebook, che ha introdotto quello virtuale.

Ultimo aggiornamento: 20 Febbraio, 00:27 © RIPRODUZIONE RISERVATA