Accordi di Abramo/ La strana pace che non ferma le ostilità tra Paesi rivali

Giovedì 17 Settembre 2020 di Vittorio Emanuele Parsi
Non ci sono molti dubbi che “l’accordo di Abramo”, come è stato enfaticamente battezzato, rappresenti un successo per il presidente Trump e il premier Netanyahu. Altri due Paesi membri del Consiglio di Cooperazione del Golfo riconoscono Israele e siglano la pace con lo Stato ebraico. A meno di un mese dalle elezioni presidenziali, con sondaggi orientati al peggio, Trump può “giocare allo statista” e indossare i panni del tessitore di pace in Medio Oriente, sulla scia di Jimmy Carter, George W. Bush e Bill Clinton. Netanyahu, da parte sua, incassa l’ennesima dimostrazione che ciò che Tel Aviv può ottenere dalle leadership arabe non dipende dall’avanzamento del processo di pace israelo-palestinese.

Il paradosso e la differenza del trattato di lunedì scorso, rispetto a quelli storici con egiziani e giordani e anche rispetto agli accordi di Camp David con i palestinesi, è che sancisce la pace di una guerra mai davvero combattuta, dato che emiratini e bahreiniti combattono eccome in Yemen, ma non hanno mai sparato un solo colpo di fucile in Palestina. Ratificano l’esistente, ovvero l’alleanza di fatto tra le monarchie conservatrici del Golfo ed Israele sotto l’egida americana rivolta a contenere le ambizioni della Repubblica islamica dell’Iran. 

Anticipano l’inclusione anche formale del Regno saudita in questa architettura e attestano il fallimento complessivo della comunità internazionale nel dare concretezza al riconoscimento del diritto del popolo israeliano e del popolo palestinese a vivere in pace entro i confini di rispettivi Stati sovrani.

Detto con estrema brutalità e franchezza, non contribuiscono ad avvicinare neppure di un metro quella soluzione pacifica di un conflitto che nasce nel 1948 e che si è gradualmente esacerbato dopo il 1967, a mano a mano che l’occupazione della Cisgiordania diveniva sempre meno provvisoria e via via che la moltiplicazione degli insediamenti dei coloni ebraici diventava “la” principale politica israeliana verso i palestinesi. Il delinking tra l’aumento effettivo di terra, popolazione e risorse (a iniziare da quelle idriche) governate dall’Autorità nazionale palestinese e l’avanzamento della pace ha progressivamente indebolito le voci della moderazione in Palestina e in Israele. La scommessa fin troppo evidente del governo Netanyahu, alla quale Trump aderisce totalmente, è che tra i palestinesi la rassegnazione prevalga sulla disperazione. È una scommessa estremamente rischiosa e dall’esito continuamente reversibile.

Anche in termini più complessivi, e a maggior ragione quando i sauditi aderiranno allo schema “abramitico”, ciò che si va prospettando ben difficilmente contribuirà alla stabilizzazione della regione, scossa dalla pluridecennale rivalità totale tra Arabia Saudita e Iran. Offrirà argomenti alla propaganda degli ayatollah sul tradimento delle leadership sunnite conservatrici e sulle ragioni che spingono l’Iran a poter contare solo sulle proprie risorse (e sulla forza militare) per uscire dall’angolo in cui sauditi, israeliani e americani li stanno chiudendo. Anche rispetto a questo conflitto, l’accordo erode i margini di manovra per chi cerca di alimentare le ragioni di un compromesso. E il compromesso è la base di qualunque pace duratura perché inclusiva; ben più raramente lo è la vittoria assoluta: lo osservava Clausewitz, non Madre Teresa di Calcutta.

Trump ha scelto di stabilizzare il Medio Oriente attraverso la rimozione delle cause profonde della sua instabilità: una rimozione “mentale”, nel caso dei palestinesi e dei loro legittimi diritti a una Patria; una rimozione “fisica” nei confronti dell’Iran e delle sue aspettative di ruolo regionale e sicurezza nazionale. Negli anni del suo (primo?) mandato presidenziale, lo spostamento dell’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme e la denuncia unilaterale dell’accordo sul nucleare iraniano (Jcpoa) sono state mosse nella medesima direzione e hanno anticipato il trattato dei giorni scorsi. 

Il paradosso è che tanta fermezza di convinzioni e il rifiuto di qualunque compromesso sono esibiti mentre, proprio a Dubai, vanno in scena i colloqui di pace per l’Afghanistan tra gli Stati Uniti e i Talebani: ovvero gli eredi di quelli che ospitarono e protessero Osama bin Laden mentre pianificava l’11 settembre. Ma questo è un anno elettorale negli Stati Uniti, e per Trump – come per qualunque presidente in carica – riuscire a “riportare a casa i ragazzi”, proporsi come artefice della pace in Medio Oriente e, magari, annunciare la disponibilità di un vaccino per il Covid-19 prima del 3 novembre potrebbero fare la differenza tra una sconfitta annunciata e un incredibile secondo mandato.
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