Negli ultimi mesi gli aumenti dei prezzi nei mercati mondiali sono stati forti e diffusi. In conseguenza della ripresa cinese e nella prospettiva di un vigoroso risveglio dell’economia americana, sono cresciute le quotazioni delle materie prime, del petrolio, del rame, dell’acciaio, del legname e di tante altre. Il buon andamento del commercio internazionale, a dispetto delle sanzioni e delle tensioni politiche, ha contemporaneamente portato alle stelle il costo dei trasporti, arrivando perfino a moltiplicare per sei volte il listino dei noli marittimi.
Sono inoltre schizzati verso l’alto i prezzi di prodotti più sofisticati, come ad esempio i semiconduttori, la richiesta dei quali è stata spinta non solo dalla ripresa economica, ma dalle nuove preferenze dei consumatori, come nel caso dell’auto elettrica, e da un aumento della domanda dovuta al lockdown, come nel caso dei televisori e degli elettrodomestici.
Questi eventi, almeno in parte imprevisti, hanno provocato vere e proprie interruzioni delle catene produttive e, di conseguenza, fenomeni di scarsità, che si sono trasformati in ulteriori tensioni nei mercati.
Nonostante tutto questo, almeno fino a una settimana fa, prevaleva quasi incontrastata, tra i maggiori esperti e i responsabili delle politiche economiche e finanziarie, la tesi che non vi fosse alcun pericolo di inflazione.
Il dibattito ha preso improvvisamente un tono diverso quando, nella scorsa settimana, è stato reso pubblico un semplice dato: negli ultimi dodici mesi, negli Stati Uniti, i prezzi al consumo sono aumentati del 4.8%.
Da qualche giorno esistono quindi due schieramenti.
Queste ipotesi di un futuro inflazionistico trovano invece l’opposizione dei più autorevoli esponenti del mondo politico e dei responsabili delle banche centrali, i quali sostengono che le tensioni dei mercati siano causate non tanto dagli aumenti della domanda ricordati in precedenza ma anche, e soprattutto, dalle conseguenze negative prodotte dalla pandemia nei confronti del sistema produttivo. Il tutto avrebbe quindi un carattere solo temporaneo, anche perché i mutamenti tecnologici e organizzativi permetterebbero una rapida crescita dell’offerta in risposta all’aumento della domanda. A sostegno della mancanza di rischi inflazionistici, essi aggiungono che anche gli andamenti dell’economia dopo la crisi del 2008 hanno dimostrato che il sistema economico non segue necessariamente le regole del passato. Non vi sarebbe oggi pericolo di inflazione anche se la crescita economica producesse, come conseguenza, una sensibile diminuzione della disoccupazione.
Per ora questo dibattito tocca ancora marginalmente l’Europa, dove la crisi è stata più profonda e la ripresa si presenta più lenta, e dove le conseguenze deflazionistiche provocate dalla politica dell’austerità permarranno più a lungo. Abbiamo quindi più tempo davanti a noi prima di essere obbligati a prendere le necessarie decisioni in una materia così complessa.
Il comportamento dei mercati finanziari non mostra ancora segni particolarmente allarmanti. Vi è stata qualche leggera flessione delle quotazioni delle azioni delle imprese più sensibili alle variazioni del costo del denaro e un leggero aumento dei tassi a lungo delle obbligazioni.
Vi è quindi ancora incertezza se quanto è avvenuto nella scorsa settimana sia solo un evento temporaneo o se sia invece l’inizio di un mutamento più duraturo. Debbo tuttavia ammettere che, se fossi di fronte alla necessità di comprare casa, chiederei alla banca un prestito di lunga durata e a tasso fisso.
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