La guerra dei talk/ L'immagine del Paese attraverso la televisione

Lunedì 9 Maggio 2022 di Mario Ajello

L’Italia della ricostruzione e del miracolo economico degli anni ‘50 e ‘60 ha avuto nel servizio pubblico radiotelevisivo un motore di sviluppo civile, che ha inciso moltissimo nel dare senso e forza agli italiani in un momento in cui questo Paese doveva crescere e affermarsi e ci è riuscito.

Non è un guardare indietro ma un guardare avanti pretendere che la tivvù svolga oggi - mentre usciamo da una pandemia, è in corso una guerra, si ridefiniscono gli equilibri internazionali e la storia si sta muovendo con una velocità capace di cambiare tutto e nella nuova epoca il nostro Paese deve esserci in prima fila - un ruolo simile a quello che seppe avere nei primi decenni della Repubblica. 

Vanno accolte perciò con favore tutte quelle prese di coscienza, in sede di governo ma anche nella dirigenza Rai e perfino in qualche spicchio della politica, sulla necessità  di elevare il livello dell’offerta informativa della televisione pubblica, di uscire dal modello malinteso dell’infotainment con molto teatrino e scarsa informazione, di superare la stanca ripetitività dei talk show puntando ambiziosamente a qualcosa di più. E a qualcosa di meglio rispetto alla simulazione dell’arena, del carnevale parolaio e dell’iper-produzione di rumore che distrae e stordisce i telespettatori. Concentrazione, please, perché non è tempo da commedia dell’arte. 

C’è da augurarsi che questi segni di modernità culturale, quelli del superamento di un modo di fare televisione diventato anti-storico oltre che sterile, non si rivelino fuochi di paglia (fare un talk non costa niente), non si squaglino di fronte alla difficoltà di cambiare spartito, non finiscano per arrendersi al conservatorismo casereccio e alla pulsione molto italiana ad auto-degradarsi invece che ad elevarsi. Dunque, la battaglia televisiva è un combattimento assai arduo, perché cambiare il format significa scontrarsi con il carattere nazionale che preferisce la tivvù intesa «Come la boxe» (titolo di un celebre saggio di Omar Calabrese degli anni ‘90) piuttosto che, e riecco il paragone con i primi decenni della Repubblica, come luogo di formazione. 
Non si tratta di fare censura, ma di fare una cesura. Ossia di puntare a una tivvù all’altezza con le sfide del mondo nuovo. L’ad della Rai, Carlo Fuortes, è esattamente in questa lunghezza d’onda ed evviva. Anche se la questione non dovrebbe riguardare soltanto il servizio pubblico. E il ritorno mediatico di Michele Santoro, nel network super-pacifista che collega i canali radio, le tivvù e i social e nel festival del samarcandismo di un secolo fa, sembra rivolto più al passato che al futuro. 

Tempo fa Fedele Confalonieri ha spiegato: «Il talk deve far casino, sennò chi lo guarda?». Ecco, proprio il caos va espunto dai programmi cosiddetti di approfondimento, perché altrimenti approfondiamo soltanto il baratro che esiste tra gli italiani vogliosi di sapere di più e quelli, sempre meno, che ancora considerano il video uno spazio gladiatorio o propagandistico o quelli che si divertono a guardarlo come l’abisso in cui sprofondano tutti ma soprattutto i presunti intellettuali e gli auto-proclamati esperti (quanti ne abbiamo visti e non avremmo voluto vederli al tempo dell’emergenza Covid!). Perché insomma, Flaiano dixit, «non è vero che la televisione abbassa il livello degli italiani normali ma solo il livello di quelli che si credono superiori agli altri». 

Ci sono principii antichissimi che il mezzo televisivo può aiutare a riaffermare e sono quelli capaci di ridare senso, forza e standing all’Italia. Non certo il principio dell’uno vale uno (io sparo questa cosa in video, e tu replichi con un’altra raffica di uguale intensità) e nemmeno quello per cui qualunquismo e qualcunismo (sono in video quindi sono qualcuno) vanno tranquillamente tollerati in nome di una malintesa idea di tolleranza. No, ci sono virtù che fecero grande il mondo nostro a partire dalla Roma della repubblica e dell’impero, come l’autorità, la serietà, la competenza, la profondità dell’ars retorica, la lucidità nel capire che cosa le parole producono e qual è il tono giusto con cui dirle, e queste virtù aiutano il discorso pubblico. Fornendo del nostro Paese un’immagine, che è sostanza, di forza, di credibilità, di affidabilità. Esattamente ciò che serve all’Italia adesso. E guai ad attardarsi con i siparietti che non descrivono ciò che siamo e ciò che vogliamo-dobbiamo essere.

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