Gigi Proietti, Enrico Vanzina: «Così nacque la battuta di Mandrake e la mia fortuna»

Martedì 3 Novembre 2020 di Enrico Vanzina
Gigi Proietti, Enrico Vanzina: «Così nacque la battuta di Mandrake e la mia fortuna»

Ricordo Gigi che parlava nella Basilica di Santa Maria degli Angeli, ricordando mio fratello Carlo scomparso. Parlava del suo amico Carlo con semplicità, ma parlava con la forza, e la grazia, e la sapienza, e l'intensità di quando recitava Shakespeare. E adesso mi viene da piangere. Ricordo spesso il pomeriggio in cui scrissi la scena del monologo del giocatore di cavalli, per la sceneggiatura di Febbre da cavallo.
Mio padre Steno la lesse e mi disse: «Tu farai davvero lo sceneggiatore». Poi la lesse Gigi Proietti. E la interpretò.

Dio come la interpretò. E grazie a lui resterà per sempre. E mi viene di nuovo da piangere.

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Ma ricordo anche Gigi che rideva e la sua risata contagiosa mi penetrava nell'anima. Riusciva a rischiarare le giornate uggiose, le tristezze interiori, la noia e la rabbia. La sua risata era una medicina. Gigi era un medico dello spirito. Inteso in tutti i sensi. Quando recitava le sue amate barzellette, ci abbiamo anche fatto un film, lo fissavo ammirato: in bocca a lui, quelle storielle popolari diventavano poesie, pezzi teatrali. Lo faceva d'istinto, senza pensarci troppo, il suo era un talento innato. Parlava e recitava come Chet Baker suonava la tromba o come Pelé infilava un goal all'incrocio dei pali. Ricordo Gigi a Largo Augusto Imperatore mentre girava con Papà la scena del whisky maschio, col fischio, col caschio, vestito da vigile. E mi resi conto che quella scena sarebbe diventata memorabile. Ricordo la telefonata di mio fratello Carlo da Porto Rotondo, in piena notte, che mi disse: «Abbiamo appena finito di girare la scena del conte Duval, l'attore smemorato». E aggiunse «Non ho mai riso così tanto girando un nostro film».


CON LA RADIO AD ANTIGUA
Ricordo Gigi a Antigua, mentre giravamo Un'estate ai Caraibi, passeggiavamo sulla spiaggia con la radiolina incollata all'orecchio. A Napoli, a seimila chilometri di distanza, la Roma giocava contro il Napoli. E vinse. E io e lui cominciammo a correre, saltando, abbracciandoci e andammo a bere rhum in un baretto fatto di paglia. Ricordo il pomeriggio in un appartamento a Passeggiata di Ripetta quando decidemmo all'improvviso di girare una scena non prevista. Era quella dell'avvocato con il cliente contadino che legge i fogli di una causa e gli fa: «Qui ce li incu qui ce li incu (pausa accigliata ) qui mi sa che ti si incu...» Girammo la scena in dieci minuti, con lui nel doppio ruolo. Un capolavoro di umorismo basso, ma altissimo. Perché lui era sempre altissimo. Mai volgare. Mai banale. Era il più bravo di tutti. Era un'altra categoria. Era veramente lo Steinway a coda dello spettacolo italiano. Adesso, in questi momenti così tristi e difficili delle nostre vite, la scomparsa di un artista gigantesco come lui, che aveva il dono di regalare sorrisi, diventa qualcosa di terribilmente malinconico.


IN AMERICA
Ricordo la prima volta che lo conobbi. Era la fine degli anni 70. Mio fratello faceva l'aiuto regista di Mario Monicelli nel film La Mortadella, girato a New York con lui e Sofia Loren. Andai a trovare Carlo in America insieme a Marco Risi. E lo conoscemmo. Una sera, insieme a lui, Monicelli e altre persone della troupe andammo a vedere Ray Charles che si esibiva all'Apollo Theatre, ad Harlem. Entrammo nel teatro e ci accorgemmo, preoccupati, di essere gli unici bianchi in platea. Erano gli anni di grande tensione tra americani bianchi e neri. Restammo immobili, trattenendo il fiato, poi passato il primo momento di stupore tra il pubblico, tutti iniziarono a stringerci le mani, entusiasti nel vedere all'Apollo, tempio della musica nera, quel gruppo di italiani. Gigi mi diede un colpetto ai fianchi e mi bisbigliò: «Dimme grazie. Hanno capito che il mio idolo è sempre stato Louis Armstrong». Poi aggiunse: «Anche se per un attimo mi so' cacato sotto».

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LA FAMIGLIA
Ricordo tanti momenti passati insieme a lui e alla sua amate donne di casa, Sagitta, Susanna e Carlotta. E ai suoi cani. Ricordo Gigi che canta, che sorride, che si emoziona, che riflette, che inventa, che racconta. Momenti che conserverò come ricordi di famiglia. Dicono che la gente dello spettacolo è una grande famiglia. Non sempre. Ma con Gigi ho provato una sensazione del genere e lo ringrazio per avermela fatta provare.
Quando ho appreso la notizia della sua scomparsa, ero appena salito su un taxi, alle sette del mattino. Il taxista mi ha detto: «Il suo amico Gigi Proietti non c'è più». Non sono stato pronto a rispondergli: «Gigi Proietti ci sarà per sempre». Sì, ci sarà. Più ci penso e più mi convinco che, usando la metafora dei cavalli, il vero Ribot era lui. Era lui Varenne. E alla fine, la sua ultima Mandrakata è la più stupefacente: lui, laico, finirà in Paradiso. Non so in quale. Ma se esiste un qualche Paradiso immaginato dagli uomini, Gigi Proietti avrà lì il suo Teatro Reale.

Ultimo aggiornamento: 14:41 © RIPRODUZIONE RISERVATA