La bussola impazzita della giustizia di casa nostra

Sabato 9 Maggio 2020 di Carlo Nordio
Non sappiamo quale sarà la sorte del Ministro della Giustizia dopo la mozione di sfiducia presentata dall’opposizione. Poiché la politica segue criteri di pura utilità, tutto dipenderà dalla convenienza che avrà il governo a difenderlo, o a mollarlo. Noi abbiamo quasi sempre criticato le scelte di Bonafede, talvolta in modo severo, come nel caso delle intercettazioni, e talvolta in modo ruvido, come per l’obbrobrio della prescrizione. Ma adesso atteniamoci alle tre accuse principali: 1) la polemica con Di Matteo; 2) la scarcerazione dei mafiosi; 3) la gestione delle carceri durante l’epidemia. Vediamoli.

Primo. Durante una trasmissione tv l’ex pm Nino Di Matteo ha telefonato raccontando che due anni fa Bonafede gli aveva offerto il ruolo di capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, ma aveva cambiato idea dopo una serie di proteste di detenuti mafiosi.

Di Matteo, ovviamente, non ha sostenuto che Bonafede vi fosse stato costretto o indotto, ma nel contesto del dibattito televisivo si capiva benissimo che quello era il suo sospetto. Tant’è che il Ministro è intervenuto subito, dicendosi esterrefatto e indignato. A questo punto un po’ tutti hanno chiesto chiarimenti a Bonafede. In realtà, le cose sono un po’ meno scontate. È Di Matteo che deve spiegare il significato del suo intervento e delle sue implicazioni:“Onus probandi, incumbit ei qui dicit”. Se poi questa prova sarà fornita, sarà Bonafede a doversi giustificare: “In excipiendo, reus fit actor”. Scusate il latinorum, ma trattandosi di un conflitto tra un membro del Csm e il Ministro della Giustizia un po’ di tecnica ci sta. 

Il fatto è che Di Matteo, sin dal momento in cui aveva manifestato la disponibilità a riflettere su quell’incarico, e poi addirittura ad accettarlo, si era volontariamente sottomesso alle rigorose regole della politica. Perché il Dap è un ufficio di alta amministrazione sottoposto al ministro. Il suo capo guadagna il triplo dei suoi colleghi magistrati, viene posto fuori ruolo e diventa il braccio secolare del Guardasigilli, di cui deve eseguire le direttive perché è quest’ultimo che se ne assume la responsabilità politica. Si tratta di un incarico fiduciario, conferito secondo criteri insindacabili dagli eventuali aspiranti, ne abbiano o meno fatto richiesta. Se poi emergesse che la decisione finale è stata frutto di un’imposizione, o peggio di un reato, la vicenda assumerebbe caratteri penali, e, nel caso di specie, Di Matteo avrebbe dovuto essere il primo a denunciarli. Invece ha aspettato due anni, per lamentarsene in un intervento televisivo. Una scelta timidamente criticata dall’Anm, e sulla quale il Csm pare non abbia niente da dire. Incidentalmente ricordiamo che si tratta di un Csm falcidiato dall’inchiesta sul giudice Palamara, che ha consentito l’elezione suppletiva proprio di Di Matteo, inchiesta che, dopo le sapienti divulgazioni di intercettazioni e pettegolezzi, oggi sembra tranquillamente assopita. 

Secondo, le scarcerazioni. Il ministro si è giustificato in Parlamento per spiegare che queste vengono disposte dai giudici dai quali i detenuti dipendono, e non dal Dap e tantomeno da lui. In effetti, i giudici non sono vincolati nemmeno dai decreti sul Coronavirus, che riguardano tutt’altra materia: hanno solo applicato la legge esistente, che disciplina i casi di incompatibilità tra il regime carcerario e la salute del detenuto, magari largheggiando di manica vista l’eccezionalità dell’emergenza e la paura del contagio. Ora il governo pare voglia “rimediare” con un decreto. Temo che - per ragioni tecniche - avrà grosse difficoltà: e infatti questo decreto, più volte promesso da Bonafede è di la da venire. 

Terzo. La gestione carceraria. Qui il Ministro reca effettivamente una evidente responsabilità, perché non ha saputo evitare le conseguenze del prevedibile ed enorme timore creato dal virus tra i detenuti. Avrebbe cioè potuto e dovuto predisporre infermerie e settori che ne garantissero l’incolumità, senza dover ricorrere alle scarcerazioni. E comunque, vista la nostra consolidata situazione carceraria, sarebbe stata un’impresa quasi eroica, forse superiore alla tempra di Bonafede.

In conclusione, questa vicenda esprime una serie di paradossi sintomatici della confusione che regna non solo nel governo, ma più in generale nella politica e nei rapporti tra questa e la magistratura. Abbiamo un membro del Csm, che attacca in modo improprio chi fino a ieri lo osannava e quasi lo voleva al Quirinale. Abbiamo un Ministro, per anni accusato di integralismo manettaro da quella stessa opposizione che oggi gli rimprovera un eccesso di generosità, o addirittura di garantismo. Abbiamo un Movimento ormai diviso tra i sostenitori dell’uno e dell’altro. Abbiamo chi, non sapendo che pesci pigliare, dà tutta la colpa una trasmissione tv. E la Rivoluzione giustizialista, che ha divorato i suoi figli, diventa uno spettacolo previdibilissimo per chiunque abbia assistito sin dall’inizio al trionfo di una cultura sbagliata che ha contaminato il Paese. Comunque la si metta, questa pagina che non fa onore alle istituzioni, poteva essere gestita dal Guardasigilli con ben altra sapienza politica. 
Ultimo aggiornamento: 18 Maggio, 14:46 © RIPRODUZIONE RISERVATA