L’eredità scomoda/Cosa lascia The Donald ai repubblicani d’America

Venerdì 6 Novembre 2020 di Alessandro Campi

Il voto per la Casa Bianca doveva essere una passeggiata per Biden.

Si è trasformato in uno psico-dramma per l’America, mai così divisa al suo interno: due mondi – la sinistra delle grandi città globalista e multiculturale, la destra identitaria tradizionalista e ultra-patriottica – che non dialogano semplicemente perché parlano lingue troppo diverse. Ma si teme che il peggio possa ancora venire: l’annuncio di Trump di voler trasferire la battaglia politica nelle aule di giustizia ha già prodotto scontri e manifestazioni di protesta. In un Paese armato sino ai denti, colpito anch’esso dalla crisi economica mondiale e socialmente prostrato dalla pandemia il rischio di uno scontro civile potrebbe farsi serio. Anche se è prevedibile che alla fine, essendo gli Stati Uniti una democrazia gloriosa e pragmatica, prevarranno la ragionevolezza e l’amor di patria. 


Trump, fedele a ciò che aveva annunciato e alla sua natura smodata, proprio non vuole accettare l’idea della sconfitta e va denunciando l’idea di un complotto democratico ai suoi danni. Sa di trovare terreno fertile in una nazione che, a partire dalla macchina onirica hollywoodiana, è la massima produttrice al mondo di teorie cospirazioniste alle quali in molti, anche solo per suggestione, finiscono per credere. Del resto, avendo rotto in questi quattro anni ogni convenzione, regola e prassi, è davvero difficile immaginarlo come sempre capita con gli ex-inquilini della Casa Bianca, nei panni del conferenziere ben pagato, dell’ospite nei programmi televisivi o dell’autore di qualche noioso libro di memorie. Lotterà sino alla fine. E di tanto alimenterà la confusione di altrettanto accrescerà la sua leggenda nera, anche se quest’estrema battaglia legale difficilmente gli porterà qualcosa se non parcelle miliardarie da saldare ai suoi avvocati. 


È il suo personaggio, ma anche evidentemente il suo carattere, per come lo abbiamo conosciuto in questi anni: un misto di egocentrismo e brama di potere, di determinazione e sfacciataggine, di spregiudicatezza politica e calcolata irriverenza, di spirito menzognero e mania di grandezza, di arroganza da macho e spirito battagliero. Tutte caratteristiche che ne farebbero, nel giudizio di chi non ha mai smesso di disprezzarlo, una orrenda macchietta e soprattutto un incidente della storia da rimuovere per il bene della democrazia americana e del mondo. Ci si aspettava in effetti un suo rigetto a furor di popolo, per stanchezza e vergogna, e invece quasi 69 milioni di elettori ne hanno fatto il loro vessillo politico (7 milioni in più delle presidenziali del 2016 vinte contro la Clinton). 


Colpisce (un po’ diverte, un po’ fa arrabbiare) leggere in queste ore così tanti commentatori che fanno mea culpa per aver sottovalutato Trump e il fenomeno politico che egli ha originato trovando, anche fuori degli Stati Uniti, così tanti estimatori. Ma ricavarne come lezione che il populismo è ancora forte e destinato a durare è davvero una banalità; è solo un modo per perseverare nell’errore che fanno, ormai da anni, coloro che col passepartout concettuale del populismo pensano di poter spiegare tutti i mali politici del mondo contemporaneo. 
Certo, Trump è stato e resterà (anche fuori dalla Casa Bianca) un demagogo, un istigatore dei bassi istinti delle folle, un semplificatore brutale, un manipolatore di fatti e parole, un esibizionista da palcoscenico. Se il populismo è uno stile, lui l’ha espresso in modo sublime da grande uomo di spettacolo quale essenzialmente è. Ma è la sostanza politico-ideologica da lui incarnata che, oltre la retorica, forse andava giudicata con più attenzione, invece di accontentarsi del cliché del miliardario-pifferaio che incanta una massa composta unicamente da bifolchi, ignoranti e razzisti (rigorosamente bianchi).


Quando Trump, quattro anni fa, fece irruzione da outsider nel campo repubblicano-conservatore quest’ultimo era già stato stravolto da G. W. Bush, che alla destra americana aveva imposto una deriva guerrafondaia nel nome dell’internazionalismo democratico e un credo globalista nel segno del neo-liberismo più sfrenato.
Per quanto estraneo a quel mondo, Trump (che prima della sua discesa in politica era, ricordiamolo, un affarista newyorchese con amicizie soprattutto nel campo democratico) ha paradossalmente contribuito, non solo a rivitalizzarlo elettoralmente e sul piano dell’immagine, ma a ripristinarne vecchie istanze e aspirazioni: l’isolazionismo geopolitico come miglior strumento per difendere l’interesse nazionale; l’esaltazione delle comunità locali in quanto depositarie del vero spirito americano; la tutela della classe media e operaia contro gli effetti distorcenti del libero mercato e della globalizzazione; l’atavica diffidenza dell’America interna verso le “cricche” di Washington e il potere centrale; l’individualismo anarcoide dell’americano medio che teme il conformismo sociale codificato dall’alto; il conservatorismo sociale e il patriottismo storico; la sicurezza – anche attraverso l’autodifesa armata – come premessa della vera libertà; il tradizionalismo religioso come antidoto al relativismo valoriale imputato al mondo liberal. 


Si tratta di un grumo ideologico ben radicato nella storia politica americana, che Trump non ha certamente inventato, semmai lo ha radicalizzato, reso ancora più popolare e capillare grazie al suo estro comunicativo e sul quale ha soprattutto innestato la sua visione – per certi versi persino ossessiva – di un’America la cui grandezza non coincide col governo morale del mondo, ma con la difesa contro tutti dei suoi interessi primari. Da qui la guerra tecnologico-commerciale che egli ha scatenato contro la Cina, considerata un attore sleale e poco cooperativo sulla scena internazionale. Da qui anche il disimpegno statunitense dai tavoli multilaterali e dalle organizzazioni internazionali, universalmente biasimato, che ha però avuto il merito paradossale di richiamare gli altri attori globali (a partire dall’Europa) ad un maggior impegno e ad una più diretta assunzione di responsabilità nei diversi scenari di crisi.


Messa così sembrerebbe una visione del mondo e una cultura politica espressione, tardiva e malata, dell’America bianca oggi impaurita e resa aggressiva dalla perdita della sua storica supremazia sulle tante minoranze che compongono il crogiolo statunitense. Ma anche questa rischia di essere una rappresentazione stereotipata o riduttiva, se è vero che in queste elezioni Trump è stato in parte abbandonato proprio dalla working class bianca del Midwest che lo aveva sostenuto nel 2016 (delusa forse dalla sua gestione anarchica della pandemia) mentre invece è stato votato a piene mani dalla sempre più influente comunità ispanica. Un allargamento del bacino sociale ed elettorale della destra repubblicana che per quest’ultima rappresenta una novità particolarmente importante ora che quel mondo, passata la buriana elettorale e finiti questi quattro anni meno pazzi di quanto oggi si dica, deve prepararsi a gestire – con altri uomini e altri strumenti, ma con idee e programmi che non saranno molto diversi – il ricco bottino politico lasciatogli da Trump. 

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