Nel Natale della nostra incertezza pensiamo di essere più soli delle altre volte, perché non c’è la bolgia del cenone, ma così non è.
E allora, sarà un Natale particolarissimo quello di queste ore che ognuno vivrà a modo suo tra i propri intimi e “affetti stabili” - chi lamentandosi a torto delle regole restrittive, chi lodandole e magari pensando che sarebbero dovute essere più rigorose, limpide e tempestive - ma un’unione di destino, nella separatezza resasi necessaria, è quella che non potrà che risaltare. Perché le guerre non si vincono da soli e tantomeno si costruiscono i dopoguerra, come sarà quello successivo alla sconfitta del Covid, se viene a mancare il cemento dell’idea di nazione e se le classi dirigenti, che sul superamento pratico e progettuale della tragedia verranno giudicate, non si mostrano all’altezza della sfida in corso e del bisogno corale degli italiani di avere le risposte che meritano. Sulla base dei grandi sacrifici che stanno facendo, più o meno tutti e più o meno bene.
Quel che serve, in questo Natale, è che nelle cene e nei ritrovi tra pochi si evitino per pudore e per rispetto ai morti e ai malati i lamenti per la festa mancata.
Per il calore che non potrà essere quello solito; per il distanziamento sociale e per il contingentamento imposto dai decreti; per il normale svolgimento del rito che è sempre stato. Vagheggiare il mondo di prima, mentre il mondo non è più quello di prima, significa non aver capito lo spirito di questo Natale. Che non dovrà essere il Natale del nostro scontento, ma una festa sobria e raziocinante, verrebbe da dire illuministica perché i Lumi più delle lucette rischiarano le menti, e una prova di forza e di lungimiranza.
La sofferenza in corso e i lutti patiti non possono far dimenticare una costante storica su cui poggiare la nostra fiducia. Il post-tragedie ha spesso creato un mondo nuovo. Il Rinascimento arrivò dopo la peste nera del 1348. L’Illuminismo si affermò dopo la distruzione di Lisbona nel 1755, a causa del famoso terremoto di cui scrisse Voltaire e che impegnò le migliori intelligenze di quell’epoca e dei tempi successivi. Se di fronte a tutti i grandi traumi che ci sono stati nella storia - pesti, guerre, distruzioni, carestie, sismi e spopolamenti - siamo ancora qui, vuol dire che l’umanità riesce non solo a riconoscere le sconfitte ma apprende da esse e si riorganizza a livelli superiori.
Ecco, questo Natale vale come balsamo per i dolori ma non potrà che fungere anche come ricostituente e come doping. Se non fosse così, sarebbe un Natale senza uno sguardo diverso e in fondo un Natale inconsapevole e sprecato. E invece, in questo Natale ci sarà di tutto all’interno delle nostre case ma più di ogni altra cosa - ed è naturale che sia così - ci sarà il discorso, il dibattito, il confronto su ciò che è accaduto a noi tutti nella pandemia e su ciò che dobbiamo aspettarci per il dopo.
Ci saranno quelli dispiaciuti perché mancano i nonni intorno alla tavola, e alcuni di loro sono mancati alla vita in questo annus horribilis. Quelli che minimizzano sciaguratamente l’emergenza (ma suvvia, non esageriamo!) e quelli che si pentono di averla sottovalutata prima che la realtà si impadronisse di loro, facendoli ammalare o circondandoli di ammalati. Quelli in preda alla tristezza perché la figlia ha il Covid, i genitori sono separati e la piccola sta con me o sta con te? Quelli che sacramentano contro Conte e quelli che non lo crocifiggono e dicono: «Altri non avrebbero fatto meglio».
E ancora. Quelli che si sono assembrati negli acquisti pre-natalizi anche spinti dal cashback ma ora fanno revisionismo: «Che stupido sono stato, corro a fare un tampone» (variante della famosa battuta geniale di Altan: «Mi chiedo chi sia il mandante di tutte le cavolate che faccio»). Quelli che il tampone lo hanno fatto ma aspettano il responso che gli fa passare la fame e il sonno e dicono: «Incrociamo le dita». Quelli che non sono potuti andare al Sud, a raggiungere i propri genitori, per paura di infettarli. Quelli che continuano, anche davanti all’Albero sguarnito di presenti, a ironizzare sulle paure degli altri. Quelli che chiedetemi tutto ma non fatemi rinunciare alla mia gita in bici con gli altri ottantenni mascherati ridicolmente da campioni di ciclismo e poi si brinda tutti insieme assurdamente. E questa lista di «Quelli che...» potrebbe somigliare alla canzone di Enzo Jannacci, ma in questo caso c’è poco da fare satira. Il momento è quello che è.
E va bene tutto, nei discorsi in famiglia (ristretta), tranne distrarsi rispetto a ciò che ci aspetta e che noi dobbiamo contribuire a far accadere. Ovvero l’uso del dolore come occasione di crescita. Del resto la storia dell’umanità è sempre stata spezzata, è andata avanti tra traumi e riprese e questa volta non sarà diverso. Basta saperlo e volerlo.
Fuori dalle finestre delle case illuminate, Roma così come le altre città sarà trasfigurata e punteggiata nella notte - ma chi lo avrebbe mai detto - non solo di lucine ma anche di autocertificazioni. E molti di noi, chiederemo a noi stessi: «Che cosa diremo in futuro, guardandoci indietro?». Che è stato tutto un incubo, ma Babbo Natale come dono ha portato il vaccino. Non lo ha preso in Lapponia ma è frutto di una collaborazione internazionale, virtuosa e modernissima, tra medici, scienziati, ricercatori, industria e politica (e guai a chi parla più di Europa Matrigna). E tra tante discussioni intorno all’Albero, quella più utile per noi stessi e per l’Italia non potrà che essere questa: «Non vedo l’ora di vaccinarmi». «No, lo voglio fare prima io di te». «Macché, prima tocca al nonno e poi a noi altri». Il vaccino, sì. Ed è importantissimo, già a Natale e nei mesi a venire, concentrarsi ogni giorno e per tutto il 2021 sul funzionamento di quest’arma anti-Covid e su come usarla bene. Tutto il resto, a parte il Recovery Fund, è retorica.