Ripenso con commozione a David Sassoli, alla nostra lunga amicizia che, come tutte le cose vere, si è andata rafforzando a poco a poco nel corso della vita.
Ho conosciuto David sul finire degli anni Settanta, nell’ambito della Lega democratica, in quel clima di confronto tra intellettuali appartenenti al mondo cattolico. Una conoscenza che si è col tempo approfondita e dalla quale è nato un rapporto personale, diventato poi un’amicizia. Con una frequenza non fittissima, nel periodo in cui era giornalista, ma successivamente sistemica, da quando andò al Parlamento europeo. A cementare la nostra amicizia è stata proprio la comune idea di Europa: il desiderio di chiudere con il passato, di ritrovare in un’eredità ideale, religiosa e culturale comune, qualcosa che potesse superare definitivamente i secoli dei massacri europei e che fosse capace di esprimere, in linea con la sua formazione di cattolico democratico, un forte contenuto di giustizia sociale. Il problema dei diritti è stato sempre al centro della sua agenda al Parlamento europeo, così come il tema dell’immigrazione, vissuto da David come elemento centrale della solidarietà. David Sassoli è stato capace, con i suoi modi miti, ma inflessibili per ciò che riguardava i principi nei quali credeva, di far diventare patrimonio comune dell’Europa i valori della solidarietà. Convinto che la svolta del Next generation Eu fosse un passaggio irreversibile che apre, a tutti gli effetti, un nuovo capitolo della nostra storia, ha saputo indirizzare con autorevolezza l’attività del Parlamento europeo, che ha mantenuto sempre attivo, nonostante la pandemia e tra mille difficoltà.
Un impegno che oggi tutte le istituzioni europee gli riconoscono con l’espressione di un cordoglio non solo formale, ma autentico e corale.
Anche se espressa solo da quel suo bel sorriso, c’era forse in lui l’idea di poter essere rinnovato alla presidenza. Ma diceva sempre che si sarebbe rimesso completamente e senza rimpianti alla tradizione europea dell’alternanza, per l’incarico di presidente del Parlamento, tra socialisti e democristiani.
Posso assicurare perché ne abbiamo parlato più volte, che non vi era in lui nessuna amarezza all’idea di lasciare. «Se c’è unanimità perché io resti – mi diceva nelle sue telefonate – volentieri. Se non c’è, è giusto rispettare le tradizioni». Ne abbiamo parlato insieme anche tra la sua prima polmonite e l’aggravamento, poco prima di Natale: «In tanti, mi ribadì, mi hanno proposto di restare, ma non vedo quell’adesione totale che lo renderebbe possibile». Non ho colto mai, nelle sue frasi, nessuna amarezza.
Assistere oggi al dolore diffuso che la sua scomparsa ha provocato in Italia, in Europa, e ben oltre il mondo della politica, non mi sorprende.
Noi eravamo amici e sapevo della sua situazione delicatissima, ma quando ho capito che peggiorava sempre più, non è retorica, ho faticato ad addormentarmi. Continuavo a vedere il suo sorriso, quel sorriso con cui ha esercitato il suo mandato fino all’ultimo e che sarà impossibile dimenticare.